Galileo Galilei e il suo “personale” bollettino medico
Siamo nel 1638, a cinque anni dall’atto di abiura, quando il settantaquattrenne Galileo Galilei scrive all’amico Elia Diodati.
La lettera è un’intensa testimonianza sul suo stato di salute. Ormai del tutto cieco, altre malattie e indisposizioni vanno a debilitare ulteriormente Galieli che, un po’ come tutti gli anziani, si sofferma in particolari molto dettagliati su tutti i malanni che l’affliggono.
A Elia Diodati a Parigi.
Firenze, 7 Agosto 1638.
Trovomi da circa un mese in qua sommamente afflitto e prostrato in letto, consumato di forze e di carne che dispero del tutto il più porterne risurgere coll vita. Alla cecità, infiammazione e flussione d’occhi, si è aggiusto l’essere io stato travagliato da dolori colici, e finalmente da una grandissima e violentissima evacuazione, accadutami non per error del medico, ma di chi mi somministrò alcuni bocconi di diaprunis, che per ordine del medico doveva essere lenitivo, ma per errore del ministro fu preso in quel cambio il solutivo, sicchè dopo brevissimo tempo cominciò a tirarmi giù tutto quello che aveva, non solo nello stomaco e negli intestini, ma credo in tutta la sustanza carnosa, cavandomi da dosso credo bene due fiaschi d’umore. Aggiungesi a questo una perpertua vigilia, per la quale a gran fortuna mi tocca a dormire qualche quarto o mezz’ora sul far del giorno, talvolta un’ora o due sul verso la sera. Disgustatissimo di ogni cosa, il vino nimicissimo alla testa ed agli occhi, l’acqua ai dolori di fianco, sicchè in questi ardori il mio bere si riduce a poche once tra vino e acqua, e ad una totale astinenza di frutte di qualsivoglia sorta; l’inappetenza è grande; nessuna cosa mi gusta, e se alcuna mi gusterebbe, mi è del tutto proibita. Questi, Signor mio, sono a me travagli grandi: ma molto maggiori sono i fastidj che mi perturbano per molti versi la mente e la fantasia, che lunghissima cosa sarebbe il raccontarli, nè io posso dettare anco questo poco senza grave offesa della testa.
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Con brevità grande dunque rispondo all’ultima sua graditissima del dì 8 di Luglio. Sei giorni sono mi fu portata dai Signori mercanti Ebers tedeschi una lettera degli illustriss. e potentiss. Stati insieme con una scatola entrovi una collana: i portatori mi trovarono in letto afflittissimo, e per essere io cieco, apersero e mi lessero la lettera di detti Signori, veramente piena di cortesia. Io la presi e l’istesso feci della scatola ma la lettera la ritenni appresso di me e la scatola, con quello che dentro vi era, riconsegnai in mano dei medesimi Signori Mercanti, pregandoli che la tenessero appresso di loro, sin tanto che io potessi scrivere in ringraziamento agl’illustriss. e potentiss. Stati, e aspettar riporta a quello che io avrei scritto, che era di ringraziarli della benigna dimostrazione e del buon affetto loro verso di me; ma che la collana non voleva che restasse in mia mano per adesso, e ciò per varj rispetti, ed in particolare per avere il mio infortunio della perdita della vista e dell’aggravio di gravissima malattia interrotto il negozio che si trattava. La gravezza del male non mi ha permesso per ancora di rispondere ai detti Signori: lo farò se mi sarà da Dio conceduto tanto di vigore, e ne manderò copia anco V. S. molt’Illustre; ma se il peggioramento mio va crescendo, come ha fatto da tre o quattro giorni in qua, dubito che il dettar più lettere sarà giunto alla fine.
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La lettera dei Signori Stati mi fu mandata dal Signor Giovanni Reijusto, parente del già Signor Realio, al quale io ho risposto, e doverà fra tanto dar conto il Olanda del succeduto sin qui, come per altra mia ho scritto a V. S. molt’Illustre. Vana impresa del tutto sarebbe che il Sig. Ortensio s’imbrogliasse a venirmi a trovare, chè quando gli succedesse il trovarmi vivo (il che non credo), mi troverebbe del tutto impotente a dargli la minima soddisfazione. Finisco, amico mio caro ed amatissimo: conservate la memoria mia, come di persona che ha conosciuto e stimato i benefizj da voi ricevuti.
Riverirà umilissimamente il mio nome gl’Illustrissimi Signori Noailles e Grozio, insieme col M. R. P. Campanella, del quale il Serenissimo Granduca mi fece leggere una sua lettera scritto a S. A. S., la quale io sentii con gusto.
Di lì a quattro anni, nel 1642, Galilei morirà.
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