Franco Caroni, Siena Jazz «Per far ripartire la cultura occorre rimboccarsi le maniche»
In Italia, lo ripetono in tanti, bisognerebbe far ripartire la cultura, uno dei settori strategici del nostro PIL. Nonostante i tagli e la crisi, che ha comportato anche un allontanamento del pubblico, alcuni dati avevano rivelato il positivo giro d’affari, con conseguente indotto, di musei, teatri, siti archeologici e affini. Eppure non c’è giorno in cui un ente, un’associazione o un teatro non riveli i problemi economici e di gestione, facendo vacillare alcune certezze del panorama del nostro Paese, che vanta risultati e successi in tutto il mondo. È il caso anche del Siena Jazz, prima università del jazz in Italia, tra gli enti più accreditati in Europa e nel mondo per la didattica della musica afroamericana. Eppure anche qui non mancano criticità economiche che gettano un’ombra sinistra sul futuro della gloriosa istituzione. Ne parliamo con il suo fondatore, Franco Caroni che dice la sua su come far ripartire la cultura in Italia.
Che cosa rappresenta il Siena Jazz oggi per l’Italia?
Nel nostro piccolo (siamo i primi a ricordarci continuamente che non siamo “Italia jazz”) contribuiamo a dare un’immagine d’eccellenza nel nostro settore, l’immagine di un’Italia che funziona, capace di programmare attività di alta formazione che a volte non hanno uguali al mondo. Mi riferisco ad esempio all’INJAM, l’International Jazz Master Program In Improvvisation Techniques, il corso biennale svoltosi dal 2008 al 2010, oppure ai Master intensivi fra i più apprezzati e riconosciuti nel mondo come i Seminari Internazionali estivi giunti quest’anno alla 44ª edizione, ma anche alla realizzazione dei Corsi triennali di Diploma accademico autorizzati dal Ministero, corsi che stanno ottenendo un riconoscimento unanime, per qualità e organizzazione, dalle più qualificate istituzioni dell’alta formazione europea. Siamo orgogliosi non solo di fare del nostro meglio, ma di essere riconosciuti come un esempio per l’alta formazione musicale jazz.
D’altra parte siamo l’unica istituzione italiana specializzata nella diffusione e valorizzazione della musica jazz: insegniamo musica jazz, produciamo jazz, la nostra vocazione da trentasette anni è solo e soltanto la musica jazz nei suoi tre settori in cui ci impegniamo dalla nostra nascita, la didattica, la ricerca e la produzione. Non si tratta di presunzione, si tratta della coscienza del proprio ruolo. Abbiamo acquisito nel tempo un know how formativo, informatico e organizzativo che gli addetti ai lavori, i giornalisti di settore e i musicisti, ritengono non avere uguali in Italia.
Tutto questo patrimonio vogliamo metterlo a disposizione delle realtà che desiderano far crescere la musica jazz e con essa il linguaggio dell’improvvisazione musicale. Il jazz è oggi uno stile musicale che va al di là del suo specifico, che sempre più spesso cede le proprie competenze arricchendo altri linguaggi, che vive e si evolve contaminandosi con altre musiche e che protegge e valorizza le proprie radici senza farsi imprigionare da esse. Siena Jazz può e vuole condividere le proprie esperienze con tutte le strutture e le istituzioni interessate a lavorare sull’importanza del linguaggio jazzistico per costruire e arricchire i linguaggi musicali del futuro.
Una volta ebbe a dire che poiché Siena è una città un po' difficile da raggiungere per gli spostamenti, siete "condannati" a offrire una formazione d'eccellenza, da voi arriva solo chi è veramente motivato. Ci spiega meglio questa sua affermazione e che risultati ha portato per l'istituzione che lei rappresenta?
Una città piccola come Siena, con un passato prestigioso, monumenti unici, un tessuto urbano altrettanto unico anche per la presenza delle contrade e una festa secolare come il Palio, non può accontentarsi di produrre soltanto attività per il suo territorio. Ha bisogno di attirare giovani talenti, di creare interesse offrendogli prodotti di elevato profilo culturale. Solo così può crescere e far crescere anche la sensibilità artistica nella propria popolazione. Siena è come se fosse “condannata all’eccellenza”, non possiamo avere una normale scuola che, per quanto buona, servirà a far crescere solo i pochi studenti locali, dobbiamo creare istituzioni capaci di attrarre energie e giovani talenti anche al di là della naturale utenza territoriale. Ecco perché abbiamo una prestigiosa antichissima Università, una delle due Università per stranieri Italiane, istituzioni come l’Accademia Musicale Chigiana e da trentasette anni anche la Fondazione Siena jazz.
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Il Siena Jazz è stata la concretizzazione di un sogno e di un progetto a suo tempo visionario. Quali sono i nuovi obiettivi a 37 anni dalla sua fondazione?
Siena Jazz è un’adolescente che guarda al mondo e alle opportunità anche potenziali che si possono intravedere, con voracità. È una struttura curiosa, alla continua ricerca di input da elaborare. Alcuni esempi? Stiamo per creare una base a Manhattan per costituire una nuova associazione, la “Siena Jazz Friends” che avrà come mission quella di favorire attività internazionali di scambio fra Siena jazz e le istituzioni musicali statunitensi interessate a collaborare con noi; stiamo inoltre elaborando convenzioni con istituzioni europee prestigiose per la formazione di reti allo scopo di attivare collaborazioni, sia didattiche che di produzione musicale, per studenti ed ex studenti; progettiamo stage per avvicinare i giovani non musicisti a costruirsi competenze specifiche nelle professioni del variegato mondo del lavoro musicale di oggi; abbiamo cercato di sensibilizzare il mondo dell’istruzione scolastica primaria e secondaria perché si riduca il gap educativo dell’insegnamento della musica nell’infanzia in Italia rispetto agli altri Paesi europei. Abbiamo insomma sempre nuovi obiettivi da raggiungere, sogni da trasformare in progetti concreti, per dare il nostro contributo a mantenere vivo e vivace il mondo della cultura.
Perché è difficile fare cultura musicale nel nostro Paese?
Perché le persone che la pensano come noi sono considerate un problema economico e non una risorsa, perché la cultura, quando gli ignoranti si trovano a gestirla, “deve poter camminare solo sulle sue gambe”, e quando scoprono che non è così non sanno o non vogliono trovare alternative; perché il mecenatismo è scoraggiato dalla mancanza di incentivi fiscali; perché si confonde lo spettacolo (che è comunque una forma di cultura, ma che segue le regole del commercio e del business) con la produzione culturale non commerciale o tutt’al più commerciabile, perché chi può non ha la sensibilità di capire le conseguenze devastanti dell’aridità culturale di un popolo, perché a scuola nel passato non hanno insegnato sufficientemente o per nulla l’importanza dell’arte nei secoli e tantomeno l’importanza dell’arte nel terzo millennio. Mancano quindi gli investimenti, le strutture, le verifiche sulle professionalità, sugli incarichi. E quel che è peggio è che siamo assolutamente ignoranti su quelle che sono le nostre mancanze. Allora – verrebbe da chiedersi – non c’è più speranza? Io credo che ci sia, ma dobbiamo rimboccarci le maniche per abbattere gli sprechi nel nostro settore (la cultura tutta intendo), nominare persone competenti e disponibili a migliorare continuamente la propria professionalità, pensare nuove leggi guardando a quello che accade nel settore cultura sia in Europa che in America perché sono molto più avanti di noi e modernizzare da subito la scuola dell’obbligo dando maggiore centralità, e soprattutto la giusta dignità alla cultura e all’arte.
Il Festival del Giornalismo nel 2014 ha rifiutato i contributi (esigui) degli enti pubblici, attivandosi verso strumenti di finanza creativa come il crowdfunding e le sponsorizzazioni private. Che cosa ne pensa? Crede che in futuro queste opportunità saranno sempre più diffuse?
I contributi pubblici sono essenziali, senza non è possibile far vivere e crescere nulla di artistico. Non conosco quanto è accaduto al Festival del Giornalismo 2014, ma certamente si può fare a meno di un contributo troppo esiguo che può significare un disimpegno o poca sensibilità da parte della politica verso un evento culturale e quindi può offendere la dignità di chi è consapevole di organizzare un’attività o un evento utile alla società. Ma credo che senza finanziamenti pubblici la cultura non possa esistere oggi in Italia.
Certo vanno verificati gli abusi, i progetti faraonici fini a se stessi, le obsolescenze fatte passare per necessità. Va insomma ripulito il settore, non abbattuto per l’impossibilità o la difficoltà di entrare nel merito. Se, ad esempio, si prendessero le normative sulla defiscalizzazione che rende possibili e diffusissime le donazioni dei privati negli Stati Uniti d’America e in molte altre nazioni evolute, allora si potrebbe anche fare a meno di molti finanziamenti pubblici sulla cultura poiché le donazioni si sostituirebbero naturalmente ai contributi pubblici.
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