Francesca Genti e le poesie per la donna del terzo millennio
«Un libro di poesie molto provocatorie e ironiche, al femminile»; in questi termini ha riassunto tale raccolta Laura Donnini, Direttore Generale di Harper Collins Italia, il 13 gennaio scorso a 8 e mezzo, popolare programma televisivo di La7. Un libro peculiare, moderno, pop e decisamente non conforme, aggiungeremmo noi, colpevoli (è meglio ammetterlo sin dal principio) in quanto membri del sesso maschile di non essere il target primario di questo volume, pensato per e diretto a donne e giovani, come, oltre alla parole della stessa Donnini, suggeriscono alcuni titoli delle poesie raccolte (quali Tutte noi sentendo le canzoni o Tutte noi qualche volta andiamo) e la dedica posta in esergo al volume che recita chiaramente: A tutte noi.
Anche la sofferenza ha la sua data di scadenza è l’ultima fatica poetica di Francesca Genti, torinese per nascita e milanese di adozione, che ha raccolto qui il lavoro di tutta una vita, scegliendo e riordinando poesie pubblicate già in raccolte precedenti (ovvero Bimba Urbana, Il vero amore non ha le nocciole, Poesie d’amore per ragazze kamikaze o L’arancione mi ha salvato dalla malinconia) facendone così la summa della sua traiettoria poetica e (leggendo queste pagine si vedrà come le due sono strettamente interdipendenti)di vita.
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Vent’anni di poesie quindi, a mostrare il meglio di una produzione vasta e proteiforme che si snoda seguendo mille direttrici, pari alle molteplici esperienze di vita dell’autrice. Il tutto viene suddiviso in cinque sezioni che, seppur variamente interpretabili in grazia alla sopracitata varietà dei componimenti, sembrano ripercorrere la fasi della crescita di una donna; se nella prima – Oggi è il giorno delle bolle di sapone – la protagonista è una bambina che vive in un mondo fatto di cartelle e cancelleria per la scuola, cartoni animati e nutella, questa cresce e, in Il corpo della donna è fantascienza e Eccola di nuovo che insegue la sua musa, già è una donna che esperisce le gioie e i dolori dell’amore. Donna che diventa poi mamma nella quarta sezione, intitolata Le fate tornavano a sbucciare le patate, tutta dedicata al figlio, e che conclude la sua traiettoria esistenziale con E sei l’ennesimo graffio fra il cielo e le case, in cui si trovano poesie modellate su preghiere (sempre però caratterizzate da un tono ironico e provocatorio), quasi a riproporre una divisione fra rime amorose e spirituali di tanta letteratura italiana, quale quella di Petrarca o, per riportare un altro esempio al femminile, di Vittoria Colonna.
Non si fermano però qui i riferimenti alla poesia italiana contemporanea e precedente. Sebbene infatti di carattere molto peculiare e apparentemente dilettantistico, il verseggiare della Genti, presenta consonanze e richiami più o meno evidenti a componimenti e poeti che l’hanno preceduta, mettendo così in luce la vasta cultura letteraria dell’autrice; oltre ai calchi più palmari quale il seme del piangere (Tutte noi qualche volta ci prende, v. 2) che richiama la celebre raccolta caproniana (che a sua volta riprende un verso dell’Inferno dantesco), o il leopardiano tenera è la notte e senza vento (In questo oscuro andare nella notte, v. 34), il verso della Genti richiama molto le esperienze di Gianni Rodari, Giovanni Giudici o il contemporaneo Guido Catalano, caratterizzate da una metrica arbitraria dall’andamento canzonettistico e da rime fitte seppur non regolari, soprattutto nella prima sezione, dove non manca la rima cuore amore (in Ogni Bambina), «la più antica difficile del mondo», citando (male) Saba.
Questo riandare ritmico e fonico ha lo scopo di tenere assieme gli oggetti che vengono gettati in asindeto sulla pagina a rappresentare la confusione e lo sperdimento dell’io lirico in un dedalo di passioni e sentimenti contrastanti. Correlativo oggettivo della confusione in un mondo poliforme, la pagina pullula di piccoli oggetti della vita quotidiana e non, quali hoola hoops, stelle, tazze biscotti, maglioni bucati, zaini e cartoni animati, tanto che diverse poesie (Cassandra 2000, Tutte noi nelle cartolerie guardiamo, o è passata tanta fanta sotto i ponti) sono costruite esclusivamente sulla loro elencazione.
Siamo quindi di fronte a una poesia inclusiva, pop, che trae nutrimento dall’unire e far cozzare fra loro gli elementi più eterogenei. E così non è raro, durante la lettura dei componimenti, imbattersi in unicorni, fennecs, maelstroms, ragazze kamikaze, il bimbominkia [sic.] o una trans nipponica. Per lo stesso motivo poi trovano posto fra i versi anche molte espressioni quantomeno prosastiche, come un vecchio frocio senza più illusioni (è eterno solamente il desiderio, v. 5), hai fatto veramente la cazzata (Io, oggi, con la mia disperazione, v. 3), Quello che ti fotte nella vita (titolo), o ancora si straripa di brutto (Mareggiata, v.6).
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In mezzo a questo magma di umanità e oggetti che si riversa disordinatamente sulla pagina e che nei versi cerca un suo ordine, quasi invisibile si situa la poetessa che, in un attimo disperato, coglie un barbaglio d’oltre, uno spiraglio della vita autentica, un sentimento genuino tanto lontano dalle nefandezze dell’antropizzata contemporaneità, come lei stessa illustra in alcune poesie dal chiaro sapore metapoetico, specialmente Certe volte si ritorna in poesia o Mio dolce piccolo fennec, o nel finale di Ballata terminale dove, dopo aver elencato la più varia umanità infuriata in coda alla posta (un luogo già di per sé fra i più lontani dal classico locus amoenus), apre a uno spunto lirico con «le due zingare all’angolo di fuori/ guardano la falce della luna/ che nel mattino azzurro adamantino/ sembra il sorriso allegro di un bambino…» Da questo atteggiamento, inoltre, derivano alcuni dei componimenti più incisivi e riusciti, brevi haiku da società dei consumi, quali All’esselunga dell’amore, Treno primaverile che porta al mare, Lettera di referenze e l’eponima Illuminazione davanti al banco dei surgelati, che appunto recita, causticamente, anche la sofferenza/ ha la sua data di scadenza.
Tutto ciò, nella consapevolezza che anche dopo la notte più scura il sole sorgerà, che la speranza, anche quella meno fondata, alla fine vincerà, che ad un amore finito succederà sempre un’altra gioia, qualcun altro che «rabbercerà il nostro sé» (cfr. Il sé rabberciato). Così dopo le poesie della seconda sezione cariche di tristezza e disperazione troviamo la poesia è l’amore la bestia più calda, vero e proprio manifesto della speranza, in cui la protagonista, a chi le dice «l’amore più lo insegui, più ti spezza/ l’equilibrio, i sogni, il sonno, il cuore» o «è l’amore la bestia più feroce» risponde «è l’amore, la bestia che ci salverà».
Per la prima foto, copyright: freestocks.org.
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