Finnegans Wake, una lettura ad alta voce, pardon ad “altra” voce
Jorge Louis Borges sosteneva che «la veglia è un altro sogno che sogna di non sognare». In questa definizione forse c’è il cuore di Finnegans Wake, l’opera di James Joyce che Enrico Terrinoni e Fabio Pedone hanno affrontato con tutta l’esplosiva e coraggiosa creatività necessaria a chi vuole tradurre lo scrittore irlandese. Lo hanno fatto raccogliendo l’eredità di Luigi Schenoni che ha iniziato a lavorare per Mondadori al progetto di traduzione in italiano di Finnegnas Wake nel 1982, curando i primi due libri di cui è composto il testo.
Ma di cosa parla Finnegans Wake? Gli studiosi di Joyce vi direbbero che a questa domanda c’è più di una risposta. Certo, è la storia di un uomo, Earwicker, della sua famiglia, della sua terra (l’Irlanda), narrata attraverso i suoi sogni e alcune veglie che il protagonista ha durante questi sogni. Ma questo è solo il fondale dell’opera.
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Il vero protagonista, quello su cui ha lavorato Joyce nei diciassette anni che ha impiegato per scrivere Finnegans Wake, è il linguaggio. Un flusso di parole che condensa e disaggrega sensazioni, generando un metalinguaggio che, a un certo punto della lettura, sembra vivere per sé e di sé, fornendo al lettore una tavolozza infinita di sfumature con cui liberare la propria immaginazione.
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Ma non ci fermiamo qui. Per comprendere meglio i livelli narrativi con cui deve cimentarsi il lettore di Joyce, abbiamo incontrato, insieme ad altri blogger e in una libreria milanese, Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni.
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Per tradurre il Libro Terzo di Finnegans Wake avete investito tre anni della vostra vita, lavorando cinque ore al giorno, tutti i giorni, per arrivare a consegnare a Mondadori settanta pagine di testo. Una sfida che in pochi avrebbero accettato. Quali principi hanno guidato le vostre scelte nel trasporre in italiano il "Joyce-linguaggio" e come avete organizzato praticamente il lavoro?
La traduzione ha a che fare con due scelte. Quella di essere un servo del testo o quella di servire il testo. Noi abbiamo scelto la seconda opzione. Per Finnegans Wake ha voluto dire farlo esplodere in tutti i modi possibili e immaginabili. Spesso un lettore, leggendo la nostra scelta traduttiva, potrebbe aver difficoltà a trovare il corrispettivo esatto nell’inglese [la traduzione ha il testo originale a fronte, ndc]. Noi abbiamo cercato di seguire l’esempio stesso di Joyce, quando si è auto-tradotto in italiano. L’ultima cosa che ha pubblicato è proprio l’auto-traduzione, fatta insieme a Nino Frank, del Libro Primo (capitolo VIII). Questa traduzione ci dimostra che Joyce non era interessato solo ed esclusivamente alla resa del testo per come era stato scritto, ma a riprodurre i suoi significati, anche se ciò voleva dire spostarli, modificarli, pur di mandare il suo messaggio al lettore. Per tradurre le nostre settanta pagine abbiamo suddiviso il testo in micro unità e abbiamo lavorato singolarmente, annotando le nostre soluzioni e poi ce le siamo scambiate. Ogni traduttore annotava i suoi commenti vicino alle note dell’altro, creando cimiteri di segni e alternative abbandonate, fino ad arrivare alla soluzione condivisa, leggendo le varie soluzioni ad alta voce.
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Finnegans Wake va letto a voce alta?
Assolutamente, allo stesso modo in cui Joyce lo leggeva agli amici. E quando incrociava dei pezzi in cui aveva inserito degli estratti di una canzone, li canticchiava. Se cercate su Youtube, scoprirete che Joyce ha registrato nel 1930 a Londra una sua lettura di Finnegans Wake. Se l’ascoltate con attenzione, noterete che ha una sua musicalità. Quindi sì, leggetelo ad alta voce e iniziate da qualsiasi punto la vostra lettura. Joyce voleva che ogni lettore potesse iniziare a leggere la sua opera dal punto che preferiva. Finnegans Wake è un libro che più che una fine e un inizio ha un “finizio”.
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Leggere Joyce è come fare una sorta di traduzione collaborativa, in cui ogni lettore interpreta la serie infinita di neologismi joyciani a suo modo?
Direi proprio di sì. Le parole sono sempre in movimento ed è per questo che facciamo il nostro lavoro. Anche se una parola viene fissata sulla carta con una traduzione che ne segna l’interpretazione, non è immutabile. È questo che fa Finnegans Wake: combatte contro la fissità delle parole. Il fatto che qualcuno abbia decodificato in un modo una serie di parole o di suoni non significa che non ve ne possa essere un’altra, tante altre interpretazioni. Questo è un testo che mette il lettore al centro della triade testo-autore-lettore. È il lettore che scrive il testo, ecco perché Joyce è un autore per tutti, ma per tutti individualmente. Ognuno ha il suo Joyce e quindi ognuno ha la sua interpretazione dei suoi testi. Grazie a Finnegans Wake torniamo bambini perché possiamo inventare parole e il loro senso.
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E ora veniamo al titolo. Si presta, al pari del contenuto del libro, a diverse interpretazioni, grazie all’utilizzo spregiudicato della polisemia. Finnegans Wake. "Wake" qui sta per risveglio o per veglia? E quella "s" finale di "Finnegans" è l’elisione di un genitivo sassone o è un’incitazione ai Finnegans, agli irlandesi, per ridestarsi? Qual è la vostra visione?
Finnegans Wake è una ballata anonima irlandese di metà Ottocento, ma è scritta con l’apostrofo del genitivo sassone (Finnegan’s Wake = la veglia per Finnegan). Chi è questo Finnegan? Il protagonista di questa ballata, un muratore che cade da una scala e muore. Durante la sua veglia, particolarmente alcolica come tutte le veglie irlandesi, qualcuno getta in faccia al cadavere del whisky. Finnegan allora si risveglia, meravigliandosi per la veglia che si sta svolgendo intorno a lui, che presto si trasforma in una festa. In questa storia Joyce trova la chiave di tutti i miti: la rigenerazione. Su questo tema si divertirà a creare molti giochi di parole. Per esempio Joyce trasformò il singolare “Finnegan” in “Finnegans” plurale. È come se dicesse: voi Finnegans, voi irlandesi, voi persone a cui hanno tolto la parola, che state dormendo, svegliatevi.
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Joyce ha un rapporto particolare con Giambattista Vico, il cui pensiero filosofico studiò a fondo. Si ritrova questa presenza anche nel Finnegans Wake?
James Joyce creava il caos ma solo per rimetterlo in ordine. Suo padre diceva che, se si fosse perso nel deserto da piccolo, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata sedersi e fare una mappa. Per orientarsi nella sua opera, Joyce ha usato due filosofi italiani: Giordano Bruno e Giambattista Vico. Quindi sì, possiamo dire che Vico è stato uno dei suoi numi tutelari. Ed è per questo che Finnegans Wake si trasforma in un discorso sulla storia. È come se Joyce dicesse: se la storia di Irlanda è andata male, proviamo a riscriverla. Proviamo a prendere chi ha vinto e a torcergli il collo, prendendo le sue parole per trasformarle in qualcos’altro. Quindi Finnegans Wake è un libro di vendetta storica. Costruita alla maniera di Joyce, con ironia.
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Finnegans Wake è costruito su errori e incomprensioni, vocali o uditive. È qualcosa che accade anche oggi e non sempre per errore. Quest’opera è anche un incitamento a fare attenzione al significato che vogliamo dare alle parole?
Joyce crea un corto circuito semantico fra quello che vogliamo dire e quello che diciamo. Quante parole noi subiamo? Il primo programma che si inventa uno slogan, lo impone agli altri che subito lo adottano, diventando marionette di ventriloqui lontani, che spesso neanche si conoscono o, peggio, di cui non si percepisce l’esistenza. Finnegans Wake disarticola la parola rigida, facendo scoprire al lettore che è mobile e la si può metamorfosare. In questo modo Joyce ci toglie dalla testa il “già pensato”.
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