“Fine Impero” di Giuseppe Genna
Uno, due, tre: così è tripartito l’ultimo libro di Giuseppe Genna, Fine Impero, Minimum fax 2013. Uno, due, tre e poi il nulla, la dissolvenza, la fine, appunto, di un impero. Nemmeno un titolo ad indicare questa tripartizione, bensì una semplice quanto elementare sequenza numerica. Il romanzo inizia con una fine: la morte di un’infante di dieci mesi che i genitori sotterrano dentro una bara bianca presso il cimitero di Chiaravalle di Milano. Durante il funerale, l’io narrante parla per conto del padre e della madre della bimba morta, si fa carico del loro dolore, ma sarà solo nella seconda parte del libro che parlerà in prima persona. Nelle prime quarantacinque pagine, si oscilla tra la terza persona plurale e la terza persona singolare per rappresentare la perdita della figlia. I genitori non hanno nome, sono identificati genericamente come il padre e la madre. I loro lineamenti si decompongono, come avviene nei quadri di Francis Bacon, e gli altri partecipanti alla cerimonia funebre temono di essere contagiati da questa perdita di fisionomia.
«Deprivazione di una figlia, di un figlio. Perché nella antica lingua italiana, letteraria fino dai primordi, non esiste un termine che indichi il contrario della condizione di “orfano”? Che cosa sono un padre e una madre che perdono un figlio, una figlia? Quale parola li denota? E affinché il termine eventualmente indicasse l’intensità della situazione – poiché non è nulla più intenso che perdere una figlia a dieci mesi – come sarebbe necessario agire in modo che le parole acquisissero intensità diverse? Scrivere poesie, un libro? Isolarle? Segnalarle? Accentarle come un insulto?».
L’io narrante, il padre che soffre, scrive per mestiere. Non è uno scrittore brillante; alcuni amici gli rimediano una collaborazione su Vanity Fair. Si occupa, quindi, di moda, di vanità, di vacuità. Nella seconda parte del libro, assistiamo a una vera e propria catabasi del protagonista nel mondo dello spettacolo e dello show business. A fare da psicopompo sarà lo Zio Bubba, che «è di più dei politici, in Italia, è quasi tutto»: un personaggio misterioso che ha aderenze con esponenti della politica e impone format e reality. In lui non è difficile ravvisare Lele Mora, una sorta di demiurgo della televisione, che scova giovani talenti, facendoli divenire celebrità del tubo catodico. In una notte senza fine vengono elencati con precisa locazione toponomastica tutti i luoghi della moda e della TV, che hanno l’epicentro nella Brianza, che «è un limbo tossico, è il primo segmento del convoglio ad alta velocità occidentale i cui binari conducono alla voragine e alla grande scossa, è la polena dal volto orrendamente deturpato e installata sulla prora della nave occidentale, ormai votata allo schianto oceanico».
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La Milano da bere degli anni Ottanta, la capitale morale di Italia, raccoglie ed emana tutta la sozzura morale e culturale del Paese, che viene raccontata da un uomo che ha perso tutto, il quale viene traghettato in feste che non terminano mai, tra giovanissimi e giovanissime discinti che si insediano nella casa dello Zio Bubba e nella villa del Proprietario. Vi sono schermi sempre accesi, che riproducono immagini azzurrognole, che restituiscono la voce premierale tra barbagli di luce e borborigmi acustici. I riferimenti al ventennio berlusconiano sono troppo espliciti per non essere colti: la TV spazzatura, le telepromozioni, i programmi di wrestling, la statuetta del Duomo gettata sul volto di Berlusconi, i festini, le orge, la prostituzione minorile, la morte di Stefano Cucchi.
La trama del romanzo è pressoché nulla, vi è un arco temporale indistinto: il ciclo diventa unico e continuo. Nella terza ed ultima parte, si ritorna al cimitero di Chiaravalle e alla perdita della figlia. Il libro inizia e finisce con una condizione postuma; la circolarità è chiusa e non trova sbocco. Il linguaggio aderisce in maniera pregnante alla fine di un impero, facendosi installazione linguistica del dolore di un padre orfano della propria figlia, che è capro espiatorio, ma non profeta, giacché non può esistere un’epoca della profezia, in quanto non esistono più ere ora e nell’immediato. Frasi involute e contorte si mescolano a costruzioni monche e a espedienti eufonici che raggiungono vette liriche; formule e sintagmi vengono ripetuti, a volte, come una litania di dolore e di perdita. «Scrivere significa andare avanti, vergando le proprie sentenze di cenere». Giuseppe Genna è riuscito, qui più che in altri libri, a restituirci il senso di testimonianza che la scrittura può assumere, senza tuttavia assurgere all’albagia dei toni profetici.
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