Fernando Pessoa, Erostrato e la fama ai tempi di Facebook
Intorno al 1930, ritornando su temi già frequentati altrove, Fernando Pessoa scrisse – frammentariamente e lasciandolo incompleto, come gli capitava spesso di fare – un saggio sui meccanismi della fama, soprattutto postuma, ma anche sui meccanismi del successo, in particolare letterario. Gli diede un titolo enigmatico: Erostrato. In Italia lo ha pubblicato l’editore Passigli, a cura di Paolo Collo, nel 2006. Infatti non ne parliamo in quanto uscita libraria recente, ma in quanto rilettura di un poeta che usava la macchina da scrivere solo quando voleva fare il futurista, eppure s’impone all’epoca della scrittura virtuale e volatile del terzo millennio.
Le intuizioni geniali, in questi frammenti, non sono poche, ma anche queste son cose che a Pessoa capitavano spesso. Lo studioso americano Richard Zenith, che di quel libro ha curato un’edizione portoghese, diversi anni fa, dice che a tratti ricorda (dunque anticipa) la famosa profezia dei 15 minuti di celebrità per tutti, lanciata molto tempo dopo da Andy Warhol. In queste pagine si registrano delle fibrillazioni nell’universo della scrittura (e, di conseguenza, della lettura) che, a meno di un secolo di distanza, avrebbero cambiato radicalmente il paesaggio, come dopo un terremoto. In un brano, Pessoa prende atto che una certa diffusione dell’istruzione sta spingendo molta gente, che in epoche passate non l’avrebbe mai fatto, a scrivere. Si crea così un inedito “market for written cleverness” (il libro è in inglese, lingua che l’autore aveva imparato vivendo, da ragazzo, in Sudafrica). È come una donna – continua, con una similitudine un po’ colorita – che in provincia conduce una vita appartata, ma in città finisce per darsi alla prostituzione. Non conosceva le potenzialità copulative dei social network.
Dopo aver rispolverato la nota distinzione fra genio e talento, cui si aggiungono altri ingredienti come l’arguzia, la brillantezza e l’intelligenza (sempre oscillando tra wit e cleverness), Pessoa soppesa i dosaggi che rendono uno scrittore più caro ai contemporanei o lo consegnano direttamente ai posteri, dunque a una specie di provvisoria immortalità. Il titolo, però, ci rimanda a un oscuro personaggio della cultura classica, che il poeta – fa notare ancora Zenith – aveva probabilmente scoperto leggendo il Sartor Resartus di Thomas Carlyle o un certo Thomas Browne, autore seicentesco di un trattato sui riti funerari. Erostrato passò alla storia per aver dato fuoco al tempio di Artemide, a Efeso. Oltre a condannarlo a morte, i suoi concittadini lo condannarono alla damnatio memoriae: fu proibito menzionare il suo nome; Erostrato, per decreto, andava dimenticato. Finì per incollarsi pervicacemente alla memoria dei popoli proprio per questo motivo. Una vera dannazione.
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È facile capire come questo incendario sia divenuto il simbolo di una scorciatoia per l’immortalità oggi fin troppo calzante, presente e invadente. Il suo paradosso è alla base di tanti comportamenti sempre più comuni nei new media, spesso amplificati a dismisura da inarrestabili effetti valanga virtuale. Non a caso, il saggio mi è tornato in mente leggendo le polemiche attorno a un articolo di Camillo Langone per «Il Foglio», quello in cui, con i corpi ancora caldi dei morti di Lampedusa, si affermava che la colpa della tragedia stava proprio nell’eccesso di accoglienza e sensibilità da parte delle istituzioni italiane verso invasori un po’ babbei. E questo va detto per distinguere l’ultima (finora) perla di Langone da quell’altra in cui l’incendiario del «Foglio» proponeva di proibire i libri alle femmine per farle tornare a procreare, o quella in cui esultava per il rogo di Città della Scienza, a Napoli, covo di darwinisti scandalosamente stipendiati con le nostre tasse.
È chiarissimo come, a margine della strada del successo new-mediatico, si aprano fittissime le scorciatoie di Erostrato per i quindici minuti di eternità, di cui le sparate di Langone o della «Padania» o le ormai copiose “frasi choc” dalle bacheche Facebook di questo o quel politico più o meno di spicco non sono che epigoni sempre più monotoni e, ahimè, meno sorprendenti. Diventa persino facile riprodurli in serie questi paradossi swiftiani de noantri: Terremoto? Cambiate casa e ridiamo vigore al mercato immobiliare; tumori a Taranto? Colpa dell’impepata di cozze; Priebke? Di romani ne ha trucidati di più il tunisino Annibale; donna stuprata? È stata lei a far credere a quel babbeo di poter entrare... e via discorrendo.
Resta il dilemma se condannare apertamente o evitare finanche di pronunciare il nome del clever di turno, per non contribuire a un’immeritata popolarità. Dunque indignarsi o far finta di niente? Informare o reprimere nel silenzio? Un quesito del genere qualcuno lo sollevò già ai tempi delle Brigate rosse, proponendo di “staccare la spina” ai terroristi. Oggi, visti i tempi e i personaggi in ballo, è un po’ come quando, in ascensore, qualcuno molla zitto zitto una scoreggia.
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