Fantasy e vin brulé – “Warrior” di Antonio Lanzetta
Benvenuti alla quarta puntata di Fantasy e vin brulé, la rubrica di Sul Romanzo dedicata alle cinquanta al cubo sfumature del fantastico. Nello scorso appuntamento, il buon Vlad Sandrini ci ha portato in viaggio nelle cerchie del dantesco Inferno di Francesco Gungui, pubblicato da Fabbri Editori. Rimaniamo in Italia anche questa volta e parliamo di Warrior, ultimo romanzo di Antonio Lanzetta, pubblicato da La Corte Editore (collana Labyrinth, 2013).
Sono due giorni che mi interrogo sul cosa scrivere a proposito di questo libro. Non ho una risposta, verrà fuori man mano che scrivo. Il principio è che, se ne stiamo parlando tra un bicchiere di vin brulé e l’altro, il romanzo infine ci ha convinti. Non è stato però un processo indolore. Trovare qualcosa indolore, in Warrior, sarebbe stato un paradosso.
Il romanzo ha per protagonista Darius, un lanciere di Andurian. Quando la terra che protegge viene schiacciata sotto il maglio dell’imperatore Caio Settimo, la sua famiglia sterminata, il valoroso soldato è piegato, fatto schiavo, deportato e costretto a combattere come gladiatore in una terra straniera. So far so good. È una storia che ci è stata raccontata tante volte, da Il gladiatore a Spartacus serie Tv, e ci piace proprio per questo.
Lanzetta ci catapulta in un futuro distopico popolato da esseri umani e mutanti uomini rettile, stagliati sulle ombre di un’antica civiltà con il volto della nostra, tramontata a favore di un impero che ricorda le vestigia della Roma cesarea ma con armature potenziate, esoscheletri e lanciafiamme. Un setting spietato ai limiti della fantascienza post-apocalittica. Nella prima parte del libro si è là, con Darius, la lancia di Andurian, come uno Spartacus nell’arena di Capua, che a testa alta e monosillabi non si piega alla violenza della sua nuova condizione. Polvere, sangue, sudore e gloria, tanto che se ne vorrebbe di più; più particolari, più immedesimazione, più attesa.
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Warrior però non è Spartacus, e il romanzo va per la sua strada, quella legittima del suo protagonista: la riconquista della libertà e la vendetta. Il “primo atto” finisce, Darius e i compagni che l’hanno aiutato a fuggire cercano di riorganizzarsi, ed è quando il romanzo si immerge nel plot principale che la tensione si allenta: un artefatto leggendario è custodito al di là del mare, un reperto del mondo che fu, un’arma che potrebbe spezzare il dominio di Caio Settimo. In questo nuovo palcoscenico – dove si intravede un’affascinante rovina simbolo della “nostra era” – l’azione non smette di essere martellante.
Forse questo è l’appunto, il principale, che ci si sente di fare a Warrior: l’azione incessante. Un “mostrare” continuo, scritto al limite della lima, molto bene, ma senza respiro, senza aperture. Un’ambientazione affascinante, che trapela al lettore tramite rarissime brecce, quando se ne vorrebbero di più; personaggi potenzialmente dirompenti, la cui profondità si limita a quella di comparse nella mischia, con pochissimi riferimenti al proprio passato,al proprio essere. Più ruoli che persone. Un high-concept serratissimo che, punto di forza del libro, a volte lo strozza, tanto che si vorrebbe saltare pagina, andare oltre, al plot.
Il plot però c’è, questo è da dire. E ci si torna. Battaglia dopo battaglia, morte dopo morte, Darius arriva alla resa dei conti, pagando però un prezzo molto salato. Il finale di Warrior non è scontato. È crudo, è difficile. Per me, lettore, è stato inaspettato, ed è ciò che alla fine fa riflettere di un libro che in fin dei conti èonesto, perché fa il suo dovere narrativo dall’inizio alla fine.
Warrior è un romanzo scritto bene, forse anche troppo (passatemela). Chi ama echi di distopia, azione al cardiopalma, combattimenti violenti, personaggi granitici ed epica, ha davanti a sé una lettura che merita.
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