Fantasy e Vin Brulé – “Rio” di Niky D’Attoma
Benvenuti a un nuovo episodio di Fantasy e Vin Brulé, con Rio di Niky D’Attoma, pubblicato da Edizioni Ensemble. Nella puntata precedente arrancavamo nel mondo selvaggio e inospitale di Annientamento di Jeff Vandermeer, alla ricerca di dettagli su un fantomatico disastro ambientale. Per rilassarci, questa volta l’ambientazione non è né selvaggia né inospitale: è una città costiera, di cui conosciamo soprattutto la sede della dogana presso il porto. La città è deserta, ma non è colpa di chissà quale disastro: è stato semplicemente il tempo, molto tempo. Non c’è più nessuno, rimangono solo i quattro personaggi che ci vengono presentati, che come dei fantasmi vivono ricordi incompleti e richiamano le esplosioni al buio di una guerra di cui si sa poco.
Prima di inoltrarci nella storia, qualche parola su questo libro strano: la prefazione assicura che Rio non è un romanzo, e in effetti non lo è. La struttura è più simile a un copione teatrale, ed è graficamente facile distinguere i dialoghi, i monologhi e le note di regia che compongono il testo. Una caratteristica tipica dei copioni che qui invece non trovo è un’indicazione esatta di chi sta pronunciando ciascuna battuta: lo capiamo dal contesto. Vediamo ora il soggetto.
È l’anno Trentamila, o forse no. La città è stata Rio de Janeiro, o forse no. Nessuno più è in grado di misurare il tempo o di ricordare qualcosa di preciso, quindi questi dettagli, per i pochissimi personaggi superstiti, automaticamente non sono affatto importanti. I personaggi sono alla ricerca dei propri ricordi e della propria identità: confidano in “J” il “Ricordatore”, che a prezzo di una fatica immane può vedere le loro memorie, ma non le sue.
La città è immobile, rimasta deserta da un tempo che sfugge a quanto ne possiamo immaginare. Rio è l’esatto contrario di un’ambientazione di azione: è stagnante, un oblio che ha perso qualsiasi metro. C’è stata una guerra, è stato eretto un Muro, Perla (il primo personaggio a pronunciare qualcosa) è sicura di aver avuto una vita e un’identità, prima; tutte queste consapevolezze sono sfocate come in un sogno. Sempre come in un sogno, la termodinamica rimane disattesa: la fisica dei corpi dei personaggi è più legata alla simbologia.
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Il figlio dell’impiegato alla dogana, nell’assaporare il gesto inutile del padre che si recava dalla dogana al porto e viceversa, lascia scomparire parti del corpo; di lui rimangono solo gli occhi, quando è un osservatore puramente passivo. La bambina, che da neonata è stata abbandonata all’ospedale in coma, ora talvolta ha scaglie di pesce, e chiama a comando l’acqua, che è la più primordiale delle madri.
È giunta l’ora di passare in rassegna le caratteristiche che mi hanno colpito di questo libro strano. La prima è la natura dell’esperimento: è un romanzo o un copione? Dal registro del testo alle scelte grafiche di impaginazione, trovo che l’ibrido sia stato costruito bene e con cura. Le scelte grafiche, come ho già accennato, permettono di distinguere a colpo d’occhio il dialogo, in cui il personaggio parla con gli altri personaggi, dal monologo, in cui il personaggio si rivolge esclusivamente al pubblico. I monologhi, va detto, sono parecchi e occupano una parte notevole della scena.
La seconda è la natura del soggetto: è di genere fantastico, o narrativa surreale? È l’anno Trentamila, o la polizia ha occupato di recente la smisurata favela di Maré in occasione dei lavori per i mondiali di calcio? La vita sul pianeta è finita da tempo immemore, o quelle che si sentono sono davvero delle sirene che annunciano nuovi scontri? Ci siamo immaginati tutto nella desolazione della miseria? Anche qui le risposte non sono certe, le chiavi di lettura sono da ricostruire fra simboli e introspezioni e il soggetto riesce a tenere i piedi in più scarpe.
La terza è lo spiegamento di forze dei monologhi. I monologhi aprono e chiudono Rio, le prime e le ultime righe sono rivolte al pubblico dallo stesso personaggio “J”. Per sua natura, questa soluzione introspettiva congela l’azione, mentre il personaggio apre se stesso al pubblico, e il suo uso abbondante riduce l’azione a quasi zero. È una lettura riflessiva e non c’è da aspettarsi che sia avvincente.
Detto questo, vi saluto dal palazzo vuoto della dogana di Rio.
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