Fantasy e vin brulé – Margaret Atwood e la storia di Zeb
Cari lettori, benvenuti all'ottava puntata di fantasy e vin brulé, la rubrica dedicata alla letteratura fantastica a tutto tondo. Il mese scorso il buon Vlad Sandrini ci ha parlato dell’ultimo romanzo di una leggenda del fantasy quale Terry Brooks. Questa volta tocca a me e in quanto a miti viventi non sarò da meno: Margaret Atwood. Ma cosa ci fa un colosso della “literary fiction”, vincitrice del BookerPrize e dell’Arthur C. Clarke e di una mezza dozzina di altri premi illustri, in una rubrica dedicata alla letteratura di genere? Fa scuola, ecco cosa.
Ms Margaret, regina indiscussa della letteratura canadese (le cui prefazioni compaiono sui libri del Nobel Alice Munro, per intenderci) è de facto una delle scrittrici viventi più illustri che si cimenti nel genere fantascientifico e, mentre i grandi editori da cui è pubblicata continuano a spingere sull’immagine di lei come araldo della letteratura femminista per signore, la Atwood continua a fare quello che ha sempre fatto: cognitive estrangement. Non tanto SF da marines dello spazio a caccia di marziani verdi e tentacolari, ma “speculative fiction”, come ci tiene a definirla lei: probabili e terrificanti traiettorie di evoluzione degli equilibri etico-tecnologici del nostro mondo.
Parliamo del suo ultimo lavoro: MaddAddam (Bloomsbury 2013). È il terzo capitolo della così detta MaddAddam trilogy, una trilogia non annunciata come tale in partenza ma creatasi in corso d’opera quando si comprese che la Atwood stava prolungando il filo intessuto nel 2003 con il bellissimo Oryx and Crake a cui seguì nel 2009 The Year of the Flood, pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie con i titoli di L’ultimo degli uomini e L’anno del Diluvio. MaddAddam narra “la storia di Zeb” (che tra l’altro è il titolo dell’edizione tedesca, a cui probabilmente si accoderà quella italiana), un personaggio rimasto nell’ombra durante i precedenti capitoli, sempre citato e mai mostrato, descritto ora tramite gli occhi di Toby, grande protagonista de L’anno del Diluvio.
Come per ogni serie di romanzi sarebbe inutile soffermarsi sul plot dell’ultimo capitolo. Ciò che posso fare è provare a incuriosirvi su un’opera che merita davvero di essere letta dall’inizio. Cos’è la storia di Zeb (e l’intera MaddAddam trilogy)?
In primis: è una storia di apocalisse. Il nostro mondo, la nostra società, arriva a un punto di rottura: nessun meteorite, niente alieni, soltanto il catastrofico franare delle disfunzioni della società occidentale e dei dogmi della scienza uniti a quelli del libero mercato. D’un tratto il tempo per l’accidia e l’ipocrisia finiscono e la razza umana è spazzata via in un soffio: questo e non altro è il Diluvio, “the waterless flood” del secondo volume. Nel dopo-catastrofe, Toby, Zeb e un grosso gruppo di sopravvissuti si troveranno alle prese con la necessità, la difficoltà e la meraviglia di riscoprirsi umani.
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È una storia di denuncia. Velata, ironica, mai pedante, sempre tagliente. L’attivismo sociale e politico della Atwood (ricordiamo il saggio Payback sul debito pubblico, scritto nel 2008 prima della crisi economica) non è mistero, e la sua fiction ne è pregna. Come da manuale della letteratura distopica, quando “il Diluvio”arriva, la società è addormentata. È viziata sino all’oblio, disillusa sino all’apatia. Le città del nord-America sono diventate slums, con i quartieri corporativi blindati e off-limits. La più conosciuta catena di fast-food si chiama “Secret Burger”, perché “tutti amano un segreto”, ovvero quello della provenienza delle carni. È un mondo dove i maiali sono stati modificati in laboratorio con tessuti umani per farne carne da trapianto; dove la sanità è per i pochi che ancora possono pagarla e dove lo scopo della medicina è sconfiggere Dio e la morte per profitto più che migliorare la vita per missione; dove l’hi-tech e la rete sono un occhio aperto e vigile sulla vita privata, per coercizione e marketing; dove la perversione di internet ha raggiunto livelli di psico-patologia globale. Un Brave new world all’ennesima potenza, dipinto a soltanto un passo dal ciglio del dirupo su cui cammina la nostra società, che fa finta di nulla. E la Atwood ci ricorda che l’ignoranza è letale.
È anche una storia d’amore. È una storia di persone, di donne, uomini e bambini, che, quando la mannaia si abbatte sul mondo piangono, si rimboccano le maniche e ricominciano. La Atwood non è una cinica distruttrice di mondi: ci tiene agli esseri umani. Frutto di una delle tante mutazioni del post-declino ci sono i Crakers (non le sfoglie di grano salate, ma “i figli di Crake”): creati in laboratorio per essere ciò che gli umani non erano riusciti a essere; forme perfette, sistema immunitario infallibile, privi dei concetti di gelosia e proprietà, prestanti, belli e sorridenti, non-violenti ed erbivori. Mettere noi, scimmie avide e brutali e nonostante tutto introverse e sognatrici, a confronto con queste umano-macchine perfette è un’esperienza su cui la Atwood gioca con leggerezza, in un messaggio che oltre la denuncia rimane imprescindibile come ultima speranza per la specie: il perdono.
La trilogia di MaddAddam, la storia di Zeb: se non siete grandi fan della letteratura distopica e post-apocalittica borderline, provate con la Atwood, vi ritroverete ad amare un genere senza neanche accorgervi del come. Se invece siete lettori incalliti di apocalisse e non avete ancora letto nulla di Margaret Atwood: fatelo immediatamente!
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