Fantasy e vin brulé – “Inferno” di Francesco Gungui
Benvenuti alla quinta puntata di Fantasy e vin brulé, la rubrica di Sul Romanzo dedicata ai generi di fantasia. Dopo l'articolo di Andrea Atzori su Angelize di Aislinn e gli angeli che ne combinano di cotte e di crude, questa volta parliamo di Inferno, il primo volume della trilogia Canti delle Terre Divise di Francesco Gungui, una storia distopica pubblicata quest'anno da Fabbri. Distopia, tanto per ripasso, è un concetto che si oppone all'utopia (un mondo ideale che non avrà mai luogo) e indica un'ambientazione profondamente ingiusta, iniqua, in cui possono essere negati tutti i diritti che ci vengono o non ci sono ancora venuti in mente. Nel caso delle Terre Divise, come minimo ho visto negare i diritti alle pari opportunità, alla giustizia, all'incolumità, e non ultimo all'istruzione. Né in Paradiso né a Europa, nessuno ha la più pallida idea di come si collochi nel tempo quest'ambientazione rispetto ai giorni nostri, e guai se qualcuno avesse una vaga idea di come si è arrivati a tutto questo. Salvo trovare qua e là nella trama alcune copie della Commedia di Dante (del tutto incomprensibili per Alec e per l'abitante medio delle Terre Divise, ahimè) che peraltro hanno fatto solo da modello di ispirazione per un'organizzazione crudele ma stabile, quasi non esiste cultura. La famiglia di Alec aveva un libro in casa, e ogni trasmissione di storie è orale. Ma vediamo un attimo il soggetto di questo futuro imprecisato.
Nelle Terre Divise, chi non ha la fortuna di abitare in Paradiso si deve accontentare di una gigantesca conurbazione come Europa: case che cadono a pezzi, poco lavoro che non sfama nessuno e, per chi riesce a procurarsene, oppiacei da fumare per dimenticare. La pena per qualsiasi crimine, dall'omicidio al taccheggio fino all'aver rivolto la parola alla persona sbagliata, è un periodo da scontare nientemeno che all'Inferno. Prigione per eccellenza, l'Inferno è costruito su un'isola vulcanica in modo da ricalcare i gironi danteschi. I filmati dei dannati alle prese con l'ambiente mortale e con mostri di ingegneria genetica vengono proiettati continuamente in tutte le cattedrali di Europa come spauracchio. Proprio da questi filmati, il giovane Alec viene a sapere della condanna della ragazza che ama. Come fare per entrare all'Inferno e portarla via? Il secondo proposito non sarà immediato, ma il primo, entrare all'Inferno, è la cosa più facile del mondo.
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Ammetto che non sono stato catturato veramente subito da questo libro. In realtà sì, per via della tensione: da qualche furtarello per sopravvivere all'occupazione illegale di una scuola abbandonata, tutti i personaggi che compaiono hanno buoni motivi per temere l'Inferno. Tensione a parte, i pochi versi citati da qualche personaggio informato della Commedia mi apparivano all'inizio buttati lì a casaccio; oltretutto, la scelta di fare del cane Cerbero un'intera specie di mostri di bioingegneria mi lasciava un po' perplesso. E invece mi sa che stavo guardando dalla parte sbagliata. Perché comunque è una distopia futuribile, e non si tratta di un regno ultraterreno ma di una prigione, uno strumento di potere edificato da una società che ha buttato via la storia e la letteratura.
Insomma avevo delle aspettative di parallelismi simbolici. Invece ho trovato parallelismi alla lettera – dai mostri come le arpie e i cerberi, alla struttura che ricalca maniacalmente i gironi danteschi – e simboli che nascono in una società oppressa. Trovo significativa una particolare scena al riguardo: si svolge una parata governativa nel giorno in cui Alec, tornato dal programma di lavoro, ha visto lo zio. Senza svelare troppo, un giovane si trova dove non dovrebbe essere e compie il saluto a braccia aperte anziché a braccia al cielo. Nonostante la censura, il suo gesto diventa un simbolo di disobbedienza ripetuto dalle masse, costringendo l'Oligarchia a correre ai ripari con antichi trucchi demagogici. Se i trucchi funzioneranno, immagino che lo scoprirò leggendo il resto della trilogia che è già uscito in questi mesi. Sul saluto a braccia aperte resisto a fatica a pensare alla croce, uno dei quattro simboli fondamentali che fin dall’inizio dei tempi indica un passaggio senza ritorno – ma no, qui non è un simbolo ancestrale. Per un popolo derubato del passato è protesta e disobbedienza, punto.
Rovistando in internet fra altri blog (es. Booksblog) e commenti eterogenei, sono emersi collegamenti a cui ammetto di non aver pensato subito, perché non riguardano strettamente la trama: punti di contatto con un’altra saga distopica pubblicata pochi anni fa, Hunger Games di Susanne Collins. Alcuni elementi sono presenti più o meno costantemente in tutto il genere distopico, come la segregazione sociale e l’ignoranza storica. Più specifici sono la trasmissione di punizioni crudeli filmate, l’impiego di creature mostruose di ingegneria genetica, il saluto simbolico durante una parata e, non ultimo, un luogo fortificato adibito ai soprusi verso le vittime. Riguardo a quest’ultimo, non ho potuto fare a meno di pensare al paradeisos, che in greco significava “giardino recintato”: l’Inferno, circondato dal Mediterraneo, eredita e rovescia la caratteristica del suo opposto, il Paradiso protetto da solide mura.
Concludendo, la cosa che apprezzo di più in Inferno è che, più o meno come tutte le storie distopiche ben congegnate, mi ha fatto riflettere. Mi fa fatto passare in rassegna i diritti di cui godo e quanto sono costati, e credo che mi spingerà a dare una ripassata ad altri testi che ho da qualche parte, in casa, con uno strato di polvere sopra.
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