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Fake news e pseudoscienza, due nemici per la democrazia

Fake news e pseudoscienza, due nemici per la democraziaC’è un legame tra il proliferare di fake news e pseudoscienza e la crisi in cui sembra essere caduta la nostra democrazia? Giuseppe Tipaldo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l'Università degli Studi di Torino e autore di La società della pseudoscienza (il Mulino), ritiene di sì, o meglio rileva in questi due fattori altrettanti rischi che potrebbero condurre all’assassinio della democrazia, come già avvenuto nella libertà.

È da questa premessa che siamo partiti per la nostra chiacchierata con Giuseppe Tipaldo, attraverso le cui parole possiamo ricostruire anche le possibile ragioni per le quali fake news e pseudoscienza riescono ad avere una così ampia risonanza.

 

Professor Tipaldo, cos’è la pseudoscienza e perché oggi continua a trovare spazi così ampi di affermazione?

La pseudoscienza è una strategia narrativa che ha la manipolazione dell’opinione pubblica per scopo, la falsa credenza per oggetto e il verosimile e l’affascinante “magico” per mezzo. Dunque, una narrazione non dissimile dalle storie fantastiche con cui siamo stati affascinati ed educati fin da bimbi: c’è un eroe, che dichiara di poter “salvare il mondo”, ovvero risolvere questioni complicate e altamente specialistiche che attanagliano la ricerca da decenni, se non secoli; un nemico, di solito la comunità scientifica e le istituzioni dello Stato (il governo, un ministero, l’agenzia italiana del farmaco, l’Ingv, ecc.) e, infine, un mezzo magico. Il mezzo magico è la soluzione che l’eroe millanta di aver trovato, un po’ per caso un po’ per illuminazione.

Parliamo di pseudoscienza e non semplicemente di favole, false credenze o truffe perché queste narrazioni sfruttano il manzoniano principio del verosimile per scimmiottare il modus narrandi della comunicazione scientifica, per carità, banalizzandola e distorcendola, ma risultando spesso più accessibili ed empatici agli occhi del pubblico non esperto, che ne resta incatenato come il possessore dell’anello tolkeniano.

 

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Casi di diffusione di notizie scientifiche false sono sempre esistiti, anche in passato. Cosa rende la situazione attuale diversa e peggiore rispetto al passato?

È vero, le frizioni tra sapere costituito e pubblico «laico» non sono certo una mia scoperta: la propensione al cambiamento e alla novità è il sintomo di una continua sfida al sapere costituito che rappresenta un tratto endemico dei regimi democratici fin dai tempi antichi. Nessun caso del passato, tuttavia, vedeva coinvolti Facebook, Google, Twitter, Instagram, WhatsApp, LinkedIn e, in misura minore, tutti gli altri.

Se si esclude il noto albero del giardino dell’Eden di cui parla la Genesi, non è mai esistito un mezzo di comunicazione dotato di tanto potere nella storia dell’umanità, quanto oggi ne hanno i principali servizi online di social networking. E non mi riferisco al potere di connettere larghi strati della popolazione mondiale, comunque non poca cosa. La misura della forza di Facebook & co. si coglie dagli effetti dirompenti che stanno producendo sul media system, in termini di liberalizzazione del flusso della comunicazione mediata. Detto fuor di sociologia, significa essere riusciti a convincere miliardi di individui che l’uso intensivo di piattaforme proprietarie per produrre e condividere contenuti e mettere in atto comportamenti un tempo per lo più relegati a contesti fisici e non virtuali li avrebbe hic et nunc elevati di grado, da destinatari passivi a emittenti proattivi. Da spettatori a micro-emittenti propagatori di trilioni di messaggi o, come si usa dire oggi, influencer. Rotti i vincoli un tempo imposti dai processi di selezione delle élite tipici del sistema mediatico tradizionale, si sono rapidamente formati eserciti di opinion leader del Sé(lfie), la reputazione dei quali – in una sorta di estremizzazione dell’estetica della ricezione – si misura con indicatori quantitativi di gradimento (visualizzazioni, like, condivisioni, commenti, sentiment, ecc.), a prescindere dall’attendibilità della fonte.

Fake news e pseudoscienza, due nemici per la democrazia

Il sottotitolo del libro recita: Orientarsi tra buone e cattive spiegazioni. Cosa distingue una cattiva spiegazione da una buona?

Se mi permettete una battuta direi la quantità di “…” e “11!!!11!!!!” dei commenti che l’accompagnano.

Se una spiegazione eccita molto gli istinti di ognuno di noi (frustrazione, rabbia, violenza, desiderio di urlare la nostra indignazione) è molto probabile che sia stata costruita innanzitutto per questo scopo e non per quello che apparentemente dichiara, cioè informarti, smascherare, renderti “controllore” dei potenti. I criteri di discernimento ce li ha consegnati trent’anni fa Eco e sono solo due, dunque non sarebbe difficili applicarli con un po’ di buonsenso, risorsa che paradossalmente pare essere divenuta scarsa proprio ora che i nipoti sono molto più acculturati dei loro nonni. Il primo è di carattere fontologico e consiste nel confrontare più fonti alla ricerca di prove coerenti a sostegno di un pezzetto di informazione; il secondo è emotivo-economico e, cito a memoria, suggerisce di «non eccedere in stupore e meraviglia» ricorrendo a dettagli che non fanno sistema. Sarebbe a dire, proppianamente, che anziché cercare conferme, dovremmo impegnarci a esercitare un sano e moderato scetticismo.

Quando però le tue fonti sono piattaforme social costruite scientemente per esporti a contenuti in linea con i tuoi gusti e preferenze, allo scopo di tenerti connesso e (in)felice per tutto il tempo che hai, mi rendo conto che delle prescrizioni poc’anzi richiamate anche l’eco presto si perde.

 

Vorrei soffermarmi sul tema affrontato nell’ultimo capitolo, le relazioni tra pseudoscienza e democrazia diretta. Quali sono i rischi concreti per la democrazia?

Che venga assassinata come con la libertà già in passato è tragicamente avvenuto, ma stavolta con una sorta di eutanasia non richiesta dal paziente. Non immagino marce su Roma, invasioni tra stati, trincee ed eserciti schierati, semmai un nemmeno troppo lento mescolamento di valori altri, democratici forse sì ma liberali per nulla. Come l’enfasi sulla necessità di avere governanti onesti, a costo di reclutarli tra neofiti incompetenti, ammesso che onesti rimangano una volta socializzati agli arcana imperii. O, ancora, come l’evocazione virtuale del “popolo” come agente legittimante di politiche e decisioni incompatibili con la Carta, un pericolo del quale più volte Sartori ci avvisava nei suoi lavori, talvolta in polemica con Pannella per il suo ricorso disinvolto allo strumento referendario. E poi c’è il peggiore di tutti, che già si spiega sotto ai nostri occhi: la deresponsabilizzazione di un popolo, l’identificazione del nemico nel diverso da sé, causa d’ogni sventura. Una strategia morale non certo ai primi posti per innovatività nella classifica dei modi con cui, nel corso della storia, gli esseri umani si sono fatti una ragione di frustrazioni e sventure, di quelle imputabili alla caducità delle cose del mondo, e di quelle dovute alla coltivazione intensiva del particulare a scapito del bene collettivo. Un’ovvietà, si potrebbe ben dire, della retorica populista, eppure capace a ogni ricomparsa di esercitare un fascino irresistibile in larghi strati della popolazione.

 

Da un punto di vista sociologico, quali sono i meccanismi per cui qualcosa di falso viene diffuso come se fosse una verità scientifica e continua a essere ritenuta tale nonostante le prove scientifiche esibite per smascherarla?

Stando ai dati più recenti messi a disposizione da Eurobarometro, oltre il 67% dei cittadini europei ritiene che scienza e tecnologia imprimano alla società cambiamenti troppo repentini, mentre sale addirittura al 78% la quota di coloro che associano alla tecnoscienza effetti collaterali anche gravi [Eurobarometer 2013]. Incapace di reggere l’insostenibile peso della complessità del reale, scossa dalle turbolenze e dagli shock politici, economici ed etici che questa genera in dosi crescenti, una parte della società volge quindi lo sguardo indietro e scorge un mondo che le pare lento, alla portata, comprensibile, persino sicuro, e ne anela il ritorno. Ingannandosi, tristemente.

Questa non nuova nostalgia del passato, che ha attraversato pressoché ogni epoca storica in molte culture diverse, è fomentata dalla tensione «naturale vs artefatto», un ribaltamento semantico le cui origini risalgono al Barocco, come argomento nel libro. Oltre che dalla tensione «naturale-artefatto», le manifestazioni della pseudoscienza sono caratterizzate da un atteggiamento ambivalente del pubblico laico nei confronti della scienza: tanto si tende a guardare con sospetto a rappresentanti e ritrovati mainstream, quanto si è invece disposti ad accogliere con cieca creduloneria stravaganti o truffaldine «alternative», le cui basi pseudoscientifiche sono prive di attendibilità. Ma c’è dell’altro. La frustrazione di aspettative, convinzioni, certezze a fondamento della propria identità sociale scatena, al contatto con l’expertise, violente reazioni urticanti che valicano i confini della sfiducia per approdare a una forma di risposta immunitaria aggressiva, i cui tratti ricordano – se posso dire – strutture narcisistiche del Sé, soggettivamente sentite come un diritto: il diritto di imporre al mondo una personalità ipertrofica.

Chiunque sia rimasto imbrigliato per qualche tempo in un gruppo di genitori su WhatsApp avrà verificato (a rischio della propria salute mentale) che la reazione narcisistica si è evidentemente cristallizzata nel quadro più ampio dei rapporti tra l’attore sociale contemporaneo e qualsiasi forma di autorità costituita (se non avete ancora notato nulla di aberrante in questi gruppi, non avete figli, sono troppo piccoli o troppo grandi per preoccuparsi di cosa fanno a scuola o, più probabilmente, siete voi stessi parte del problema di cui parlo).

Fake news e pseudoscienza, due nemici per la democrazia

Non possiamo non citare il caso delle Iene con il metodo Di Bella prima e stamina poi. Perché oggi una trasmissione come questa ha maggiore credibilità della comunità scientifica? Esiste qualche responsabilità anche da parte di quest’ultima?

Perché è brava a spettacolarizzare e, nel caso Stamina, drammatizzare vicende complesse e a connotarle emotivamente senza farsi alcuno scrupolo. Nomen omen.

No, la comunità scientifica non è responsabile diretta. Anzi, per bocca della scienziata e senatrice Elena Cattaneo, Umberto Veronesi e altri (per Stamina) e di Veronesi, Garattini e altri (per Di Bella), aveva avvisato subito la politica della scempiaggine che si stava finanziando con soldi pubblici, ma sono riusciti a farsi ascoltare soltanto nell’episodio delle staminali, e in zona Cesarini.

Se invece cerchiamo le ragioni umane per cui la pseudoscienza spesso riesce mediaticamente a prevalere sulla scienza, beh, in questo caso delle responsabilità le scienziate e gli scienziati ce l’hanno. Sappiamo, ad esempio, che le professioni “colte” e codificate per anni hanno potuto permettersi di non imparare a comunicare con il pubblico, facendo anzi leva su linguaggi inaccessibili per suscitare rispetto e reverenza nei propri interlocutori. Questo atteggiamento permane, benché si osservi un’inversione di tendenza anche a causa degli episodi citati. Ad esempio, è noto che Di Bella ascoltava anche per ore coloro che ha illuso, mostrando un’empatia che i pazienti cercano nell’interazione col medico ma raramente trovano, un po’ per una distorsione professionale e molto a causa del regime schiavista con cui gli ospedalieri sono costretti a lavorare: assenza di risorse, calo del personale, burocrazia anacronistica, turni massacranti, poche garanzie a fronte di enormi responsabilità.

Infine, a differenza dei paesi anglofoni, solo in tempi recenti è stato seriamente introdotto l’impegno alla disseminazione della ricerca in ambito universitario, la cosiddetta “terza missione”, che peraltro ancora non è stata declinata in criteri di merito oggettivi in sede concorsuale. Questo spiega perché la maggior parte della comunità scientifica non è incentivata a comunicare e, prim’ancora, a imparare a farlo.

 

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Quanto può essere credibile la posizione secondo cui alcune di queste tesi pseudoscientifiche e false siano prodotte e diffuse per manipolare l’opinione pubblica? Come possiamo difenderci?

Non sono un fanatico dei complotti, anzi, ho scritto un libro per tentare di limitarne scientemente l’abuso nelle narrazioni pubbliche. Sarebbe però altrettanto miope ritenere che non esista chi sta facendo della pseudoscienza e delle fake news un nuovo, impalpabile e radicale strumento di propaganda. Talvolta, come nel caso del radon precursore nel terremoto del 2009 a L’Aquila, per distorsioni narcisistiche soggettive. Altre, come nelle conversazioni online sui vaccini o le migrazioni, per la massimizzazione del consenso a fini elettorali. È questa la parte più subdola per il futuro del modello democratico liberale che, nelle molte imperfezioni, ha regalato al più bellicoso continente della storia umana oltre mezzo secolo di relativa quiete.

Il piano dell’immunizzazione è fatto di tanti strati, non facili da comporre in un mosaico coerente. Mi fermo ai due che ritengo prioritari:

  1. L’educazione del cittadino a una coscienza critica digitale. E sto pensando innanzitutto ai genitori e ai nonni, benché di solito si senta il ritornello “dobbiamo spiegarlo ai ragazzi”. Certo, dobbiamo, ma se riunissimo in una grande piazza adulti, anziani, giovani e giovanissimi, scopriremmo che i più inclini ad abboccare a qualsiasi cosa non sono i membri delle ultime due categorie. Ai creduloni, direi innanzitutto quello che ho già detto nella risposta alla domanda sul discernimento, poco prima.
  2. L’educazione, tuttavia, può poco se non si prende coscienza che è arrivato il momento di imporre regole stringenti ai potentati online: gli americani se ne stanno finalmente rendendo conto, ma discutono l’aspetto monopolistico della questione, che è rilevante ma non esaustivo. Mi riferisco al fatto che più d’uno di questi onnivori leviatani ha mostrato di non essere particolarmente affidabile e trasparente nella gestione dei nostri dati, pur spergiurando il contrario; non ha investito efficacemente nel contrasto di sistemi automatici di inquinamento del dibattito, mentre promette di migliorare il mondo connettendone ogni punto; non ha voluto, o non è stato capace, di impedire la deriva delle informazioni inattendibili usate come esche a scopi commerciali e pubblicitari; per non parlare dei video lesivi della dignità di chi vi è ripreso, spesso vere e proprie prove di reato. Tutto ciò continua ad avvenire senza che nessun paese e nessuna istituzione pubblica (nemmeno il Senato americano che ha convocato il proprietario di Facebook) riescano a chiedere efficacemente conto a questi giganti della loro condotta.

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Per la prima foto, copyright: Franck V. su Unsplash.

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