Fabbriche e campagna elettorale
Sento parlare molto, in questa campagna elettorale per le europee, di Lavoro e di Industria. Ma quanti sono i candidati che vanno davanti alle fabbriche? Quanti sono quelli che si fermano a parlare con gli operai e gli impiegati? Quanti riescono a stoppare la protesta grillina che penetra nel mondo del lavoro pesante?
Ci sono giovani capaci e meno, giovani operai insidiati dalla riforma Fornero, tutti nella medesima situazione d’instabilità, di timore: tutti incolpevoli, poiché singoli e soli di fronte al macigno della crisi. Come parlare a questi lavoratori di idee e di progetti, dopo l’abbandono e la crisi? Con quale coraggio proporre un ripensamento del sistema produttivo nazionale?
Il terzo settore, in questo, può essere determinante, come anche strutture di formazione a supporto della ricollocazione dei fuoriusciti. Ammortizzatori sociali, investimenti e servizi ai lavoratori e alle lavoratrici, insomma, con un occhio particolare a chi si usura anche in giovane età.
Questo Paese deve essere più nostro, e noi più loro, a disposizione di quei bisogni che, se insoddisfatti, recano un danno permanente e procurano una frattura tra persone e persone, cuori e cuori: in un reciproco allontanamento che rischia di sfociare nella rabbia e di dar ragione ai protestatari di professione.
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In questo quadro, dove il rischio positivo è stato confuso con l’azzardo, l’Italia non si riprende e soffoca stretta nella morsa dell’individualismo più nero. Non abbiamo tempo da perdere, certo, ma forse non abbiamo più tempo. La storia ci sta consegnando all’oblio, poiché monchi di un progetto che storpi l’attualità e raddrizzi il futuro. Intere generazioni hanno la responsabilità di quanto sta accadendo, e glielo rinfacciano la fatica degli operai e la desolazione dei disoccupati: un misto di rancore e sudore che trova oggi, in Grillo, un attizzatore di carboni, un interlocutore privilegiato. Per questo, per tutto questo, io ho paura che l’uscita dalla crisi possa essere politica ed autoritaria.
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