Etimologia popolare e cambiamento linguistico, gli errori che fanno la storia
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 5/2013, La gioia dell’incontro]
Se fosse vissuto dopo la sconfitta di Pirro, un vecchio abitante di MALEVENTUM avrebbe fatto fatica a riconoscersi in una qualche città dell’impero romano: era nata BENEVENTUM, oggi Benevento, e del suo centro non vi era più traccia.
Prima del Medioevo, nessuno avrebbe pensato al mare piatto e all’assenza di vento, se qualcuno avesse parlato di “bonaccia”: esisteva “malaccia”, ma aveva tutt’altro significato. In futuro, chissà, lo sposo potrebbe varcare la “sogliola” di casa con la sposa in braccio, senza per questo trovarsi in un appartamento invaso dall’acqua: immersa nel lento fluire della storia, insomma, la lingua cambia.
Anche in maniera molto bizzarra. Il nome MALEVENTUM non piaceva ai Romani, soprattutto dopo la battaglia che, nel 275 a. C., portò alla sconfitta del re dell’Epiro: l’avverbio “male” non era adatto a quelle fortunate circostanze e fu immediatamente sostituito con “bene”, ma l’interpretazione era sbagliata: la parte iniziale della parola, la cui storia non è certa, non aveva nulla a che vedere, infatti, con eventi negativi. La stessa sorte è toccata a “malaccia”, che ha dovuto cedere il posto a “bonaccia”: i Latini lo presero in prestito dal greco malakía e Cesare utilizzava il termine MALACIA per indicare, metaforicamente, la “bonaccia di mare”; nel Medioevo, però, l’inizio del lessema proprio non richiamava i concetti di “tranquillità” e “placidezza”: fu così che bon- fu sostituito a mal- e un’altra paretimologia vide la luce. E che dire dei due sposi? “Soglia” è foneticamente confondibile con “sogliola”, quindi un’associazione del genere non risulta affatto impossibile (d’altra parte, se è pure attestato “acqua di stirata” in luogo di “acqua distillata”, non è difficile pervenire alla conclusione che la casistica sia davvero ampia).
Il linguaggio funziona sempre per associazione: alla realtà osservata – o meglio: all’idea che abbiamo di essa – corrisponde come minimo un segno, che le viene attribuito in modo arbitrario; se questo non fosse vero, allora utilizzeremmo le stesse parole per indicare gli stessi concetti in tutte le parti del mondo, ma così non accade: in inglese il nostro “cane” è dog; in francese è chien; in tedesco, hund; nelle oltre seimila lingue naturali, insomma, sarà presente un significante diverso.
Più che “arbitraria”, però, quest’associazione andrebbe classificata come “opaca”, quindi non “trasparente”. In diversi casi, infatti, trovare una motivazione è possibile, e non parliamo solo dei fonosimbolismi, attraverso i quali i parlanti riproducono la realtà circostante (si pensi al tic tac dell’orologio o al chicchirichì del gallo). Sappiamo, per esempio, che i nostri “occhiali” si chiamano così per via dell’“occhio”, ma che in Francia lunettes “piccole lune” dipende dalla forma delle lenti; nella lingua inglese, glasses è associato al materiale.
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È come se nel segno linguistico, insomma, fosse richiamato un tratto che, secondo la comunità, è saliente per la descrizione del referente in questione, ed è questo, perciò, che rende ogni società diversa da tutte le altre, assieme a tutti gli altri meccanismi con cui i singoli gruppi definiscono la realtà, dopo averla organizzata cognitivamente.
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