“Esterina” di Libero Bigiaretti
Correva l'anno 1942, quando uscì Esterina, primo romanzo di Libero Bigiaretti. A distanza di quasi settant'anni, nel 2010, Isbn Edizioni lo ha riproposto, all'interno della collana “Novecento Italiano”, arricchito da uno scritto di Eugenio Ragni.
Autore semisconosciuto (a torto), Bigiaretti si inserisce tuttavia nel novero di quelle personalità artistiche che gravitarono attorno alla figura di Adriano Olivetti; la bibliografia dello scrittore, nato a Matelica nel 1905, è vasta e articolata. Ed in quest'ambito, Esterina si pone come il punto di partenza: romanzo inviso al regime fascista, racconta la storia di un amore coniugale infelice; una parabola che non si lascia indovinare dall'incipit, pieno di "agreste" speranza: «Fin dove arriva la mia memoria, mi rammento che ho vissuto ogni anno della mia vita nell'attesa ansiosissima dell'estate». Il protagonista racconta, in prima persona, “come amor lo strinse”: le vacanze in campagna diventano lo sfondo, la scenografia dell'affetto tra due giovani. Bigiaretti conduce la narrazione, attraverso una prosa elegante e musicale, da un evento all'altro, talvolta con notevoli ellissi, come seguendo l'incedere episodico che caratterizza la redazione delle “memorie”.
L'analisi, da parte dell'autore, di quelle strane, e talvolta inafferrabili, dinamiche che regolano i rapporti umani, è impietosa. Si parla di un amore nel quale, come dichiara la voce narrante: «una parte di me […] è rimasta estranea: è rimasto sacrificato il vivificante piacere di sentire il giuoco dell'intelligenza oltre che del sentimento». Il continuo “duello d'amore”, come potremmo definirlo, sempre in bilico fra il sentimentale e l'egoistico, sospeso sul baratro dell'autoreferenzialità, vede i protagonisti accendersi di un trasporto quasi magico, bruciare le tappe, sposarsi, sognare la delizia di una vita da trascorrere nella reciproca compagnia, e poi, d'un tratto, scorgere l'allungarsi di ombre sinistre, probabilmente destinate a travolgerli.
È così che Bigiaretti, in Esterina, mette in scena lo “sfaldamento”; in quindici brevi capitoli, l'idillio si trasforma in una “camera delle torture”, nella quale a confrontarsi non sono più un uomo e una donna, ma due istanze uguali e contrarie, in una tenzone che si alimenta della mancanza di parole per definire la “distruzione”, la deflagrazione dovuta, forse, non tanto alla consunzione del rapporto amoroso, quanto al modo con il quale questo si è inscritto nel contesto di un'esistenza, quella del protagonista, segnata, alla fine dei conti, dalla “inettitudine”, così novecentesca e tuttavia ancora così ben presente alle nostre coscienze.
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