Esiste differenza tra pazzia e normalità? “Il treno ha fischiato” di Luigi Pirandello
Nella novella Il treno ha fischiato, contenuto nella raccolta Novelle per un anno, Pirandello descrive la situazione di Belluca, uomo grigio e tediato lavoratore d’ufficio che, dopo aver compiuto un’azione inaspettata, consistente in una vera e propria rivolta nei confronti del proprio capo, viene ricoverato in una clinica psichiatrica in quanto viene considerato da tutti “pazzo”.
«Principio di febbre cerebrale», così i medici ne avevano descritto la condizione, e i colleghi si divertivano a schernirlo alle sue spalle non comprendendo il reale motivo scatenante quella reazione anormale. Il suo caso, infatti, afferma il narratore, «poteva anche essere naturalissimo» sebbene, da una prima analisi, apparisse effetto di «un’improvvisa alienazione mentale» in quanto l’assalto nei confronti del capo-ufficio sembrava essere stato preconizzato dal suo stesso atteggiamento mattutino: sembrava, infatti, fosse dominato da una rinnovata e particolare ilarità che lo aveva portato a trascurare il lavoro.
In seguito alla reazione pazzoide, «lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti». E qui seguitava a parlare di un treno, di un fischio in lontananza e nessuno aveva avuto la possibilità di comprendere di cosa stesse parlando.
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Il narratore, però, suo vicino di casa, che lo conosceva particolarmente bene e ormai da molti anni, comprese che fosse accaduto qualcosa che aveva generato in lui quel moto interiore «naturalissimo».
Il vicino spiega infatti che la vita di Belluca era una vita «impossibile»: viveva con «la moglie, la suocera e la sorella della suocera», «tutte e tre [che] volevano essere servite». In aggiunta a queste ultime, si accasarono anche le due figlie vedove dopo la morte dei rispettivi mariti, una con quattro figli e l’altra con tre. Di conseguenza, è comprensibile come egli, per «dar da mangiare a tutte quelle bocche», fosse costretto a portarsi il lavoro da casa in modo tale da ottenere qualche emolumento ulteriore. In conclusione, egli viveva una vita davvero «impossibile», tra strilli e litigi delle donne che non gli permettevano di lavorare in tranquillità.
Il narratore, a questo punto, spiega come sia venuto a conoscenza che a Belluca, «naturalissimamente», sia accaduto un fatto «naturalissimo»: una sera, a causa dell’eccessiva stanchezza, non era riuscito a prendere sonno e aveva sentito in lontananza il fischio di un treno e ciò gli aveva innescato una catena di ricordi che lo avevano riportato alla sua giovinezza, quando aveva viaggiato e aveva vissuto il mondo. In conclusione, il povero Belluca non era impazzito ma, semplicemente, si era perso nei suoi viaggi mentali in Siberia, in Congo e, durante la giornata successiva a quella nottata in cui aveva compreso che esisteva ancora un mondo oltre la sua esistenza impossibile, «s’era ubriacato» di vita.
La novella viene narrata dal vicino di casa di Belluca retrocedendo nel tempo: essa, infatti, si apre con il fatto già accaduto analizzando le diagnosi mediche e le opinioni dei colleghi del computista grigio impazzito, per poi muovere all’episodio accidentale che aveva dato una svolta dirompente nella penosa vita del protagonista.
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La sua vita era davvero «impossibile» in quanto era vessato dai colleghi e, al tempo stesso, era costretto a subire le liti e i dispetti delle «sue» donne; in particolar modo, è evidente come il protagonista fosse angariato dagli altri lavoratori d’ufficio tanto che viene di fatto schernita la sua condizione di pazzo rinchiuso al manicomio: «frenesia», «encefalite», «infiammazione della membrana», «morrà? Impazzirà?». Peraltro, durante le sue giornate lavorative, era stato spesso «frustato, fustigato senza pietà» per vedere se potesse adirarsi nei confronti di un atteggiamento siffatto rivolto nei suoi confronti gratuitamente, per puro scherno. Il giorno fatale, però, egli si era presentato a lavoro con «un’ilarità vaga e piena di stordimento», «con un’aria di impudenza» e con occhi che, di solito spenti e avvizziti dalla sua esistenza, «ridevano lucidissimi»; è utile sottolineare come queste espressioni che enfatizzano lo stato vitale di Belluca siano necessarie per descrivere la nuova condizione da lui vissuta: era riuscito a liberarsi dalla gabbia della forma che lo aveva tenuto prigioniero per anni, aveva compreso che la sua esistenza era obnubilante rispetto alle migliaia di vite fatte di viaggi e scoperte, un po’ come era stata la sua stessa giovinezza.
Tale gaiezza è sintomatica di uno stravolgimento totale della maschera che egli aveva continuato a indossare per decenni: grazie al momento epifanico del fischio del treno, Belluca è riuscito a risalire, con la memoria, alla sua giovinezza, ha compreso che, nel corso degli anni, si era trasformato in un “altro”, o meglio, in un’altra maschera che meno concerneva la sua vera essenza. È per questo motivo che Pirandello predilige la metafora animale per descrivere l’esistenza del protagonista: egli era un «somaro che tirava zitto zitto […] per la stessa strada la carretta con tanto di paraocchi», ossia, fuor di metafora, egli era stato costretto entro una gabbia della forma che gli imponeva di subire il peso di un’esistenza grigia, fine a se stessa e senza una possibilità di evasione, nemmeno mentale; è solo grazie al fischio del treno che riesce a ri-vivere, a ritrovare la via precipua alla vera essenza che sta alla base della sua identità. Un’essenza che potrebbe essere definita anche “poetica” in quanto, in seguito all’epifania, egli parla per immagini, si esprime tramite figure e, addirittura, analogie tipiche di un animo poetico: «[dalla sua bocca fuoriuscivano] cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche» e parlava «di azzurre fronti di montagne nevose […], di viscidi cetacei che […] con la coda facevano la virgola».
Come si può notare dai numerosi termini lessicali settoriali, Pirandello sceglie di descrivere in maniera minuziosa in che modo un caso come Belluca sarebbe stato diagnosticato dalla medicina novecentesca – si vedano, per esempio, i termini «encefalite», «principio di febbre cerebrale», «infiammazione della membrana» – termini che, però, potrebbero essere letti alla luce di un orizzonte comico, volto a denigrare, in un certo senso, la pretesa scientistica di poter descrivere oggettivamente ogni caso clinico.
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La vicenda, infatti, può essere analizzata a partire da un paradigma scientifico che cerca di evidenziare gli aspetti psicopatologici di Belluca: la sua pazzia è tale in quanto, dopo essere stato angariato per decenni, ha subito uno shock nervoso che lo ha portato a farneticare parole sconnesse circa un treno, delle montagne e delle città o luoghi mai visitati. Al contrario, si può realizzare un’esegesi “pirandelliana” della vicenda che porta a concepire come essa sia scaturita «naturalissimamente» per un fatto «naturalissimo», per usare le parole del narratore.
Muovendo, infatti, dalla visione relativistica propria di Pirandello, si può affermare che Belluca non può essere annoverato tra i pazzi in quanto, come si evince anche in Uno, nessuno e centomila, siamo tutti pazzi: non è possibile distinguere tra pazzi e sani, ma soltanto tra chi ha compreso che la pazzia è intrinseca alla realtà umana e chi, al contrario, non l’ha ancora compreso o finge di non saperlo.
Il protagonista della novella, di conseguenza, è un individuo che, grazie al fischio del treno che ha risvegliato in lui memorie di un tempo passato e spensierato, è pervenuto alla conclusione che, nonostante la vita umana sia caratterizzata dalla continua vestizione e svestizione di infinite maschere, il singolo ha la possibilità di evadere dalla prigione della forma anche solo con la mente, per qualche breve intervallo di tempo nel quale, però, può respirare a pieni polmoni l’aria ossigenata della vita.
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La visione relativistica, dinamica, mutevole e metamorfica della vita propria di Pirandello lo porta a sottolineare l’impossibilità di scorgere un nesso causa-effetto oggettivo all’interno della vita degli uomini; egli è “sacerdote del caos” e i suoi personaggi rappresentano un microcosmo a sé stante, che non può essere analizzato se non nella sola peculiarità della interiorità profonda dell’individuo, e introducono il lettore nel mondo del “tutto è possibile” dove il confine tra pazzia e normalità non esiste e tutto si mesce in un fatto, concludendo con le parole del narratore de Il treno ha fischiato, «naturalissimo».
Per la prima foto, la fonte è qui.
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