Eroi, Demoni e Dee
[Quinta puntata della Rubrica Nella pancia del drago]
E non necessariamente in quest’ordine. Fantasy: psicoanalisi degli archetipi in ottomila battute (con doppio spazio).
La Pancia del Drago si chetò dai mormorii digestivi e tacque in ascolto: «She did not blench: maiden of the Rohirrim, child of kings, slender but as a steel-blade, fair yet terrible!»(Tolkien, LOTR, p.823). Di chi stiamo parlando? Ma di Éowyn, che domande! Colei che fronteggiò il Signore dei Nazgûl e lo sconfisse, dove i più valenti eroi (maschi) avevano fallito.
Si era nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale e tra le righe di un racconto fantastico un filologo britannico delineava un archetipo di donna che sarebbe stato rivendicato per tutta la seconda metà del Novecento dal movimento femminista.
Nella scorsa puntata, si è parlato del rapporto tra bene e male nell’economia narratologica della letteratura fantasy, e uno dei commenti più significativi da parte di un lettore su Facebook è stato la dichiarazione per cui, in fin dei conti, ciò che lo teneva lontano dal genere era il «manicheismo di fondo». Ebbene sì, questo è il rischio di ogni narrativa che fa del simbolismo il suo motore. Proprio dei «mercificatori del fantasy»(come dice la Le Guin) è lo sfruttare queste contrapposizioni come categorie estetiche vuote, Signori Oscuri Vs “flat characters” bidimensionali; proprio della letteratura è, invece, tramite queste categorie, mostrare la verità che striscia nel mezzo.
Eroi, Demoni e Dee convivono spesso nelle stesse figure, nel tentativo di emancipare dei concetti. Quindi lo spoiler della puntata era una bufala? Esatto! E cosa ci azzecca Éowyn? Parlando di mito, si è detto che la chimera del fantasy è quella di svincolare la realtà dalle sue costrizioni in modo da suggerirne un’immagine intellegibile, là, nei mondi infiniti dell’altrove. In questo scenario, la lotta per districare la complessità della figura femminile, liberandola dalle costrizioni sociali della “realtà”, è forse quella più affascinante. Il fantasy dalla parte delle donne? Così sembrerebbe.
Si sa che gli eroi hanno bisogno dei “mostri” da combattere in modo da riconoscersi come tali. Simpateticamente, i mostri non hanno alcun bisogno degli eroi. Essi sono, sussistono come ombra stessa della paura dell’ignoto nella psiche dell’eroe – “ombra”, dicendola alla Jung (Atwood,Doubleday, 2011). Nelle sfaccettature di una cultura patriarcale – quella bianca, occidentale, romano-barbarica e cristiana poi – una letteratura del fantastico, per emancipare la figura femminile, non avrebbe potuto che spingerla nei panni del ruolo che nel mito, da Achille a Beowulf, era stato da sempre riservato all’uomo.
Nel fantasy – soprattutto nel fumetto e in ambito ludico – la Wonder Woman in stile Xena, principessa guerriera ha spopolato: donna che non si fa salvare dal principe contro il drago, ma che calcia il principe negli stinchi, gli ruba la spada e – possibilmente con vestiti succinti – il drago lo decapita da sé, nel visibilio dell’audience (maschile). Al tempo stesso – passando dalla letteratura vittoriana sino al decadentismo, da Catwoman sino alle varie streghe cattive della fiaba mitteleuropea impastata in stile Disney – il fantasy è colmo di figure in stile femme fatale: Circe, Medea e Lilith al tempo stesso, donna-demonio della cristianità medievale, dominatrice lussuriosa che attacca l’essere maschile là dove è più vulnerabile, nella sensualità e nel desiderio, e che non indugia a usare questo suo super-potere con cinismo. Essa è sicuramente emancipata come potrebbe esserlo un Balrog o un’idra, ed è contrapposta alla sua speculare visione simbolica: la Dea, donna angelica, la Beatrice che alberga nell’essenza dell’Essere femminile, l’eterna dama del lago (da contratto con gli studios non può essere brutta).
«Cliché! Cliché! Al rogo!»– urlò la platea gastrica. È il caso di ripeterlo: non è il cosa che fa un cliché, ma è il come. Noi sapiens sapiens, esseri narratori, riconosciamo la realtà tramite pattern ricorrenti di segni e significanti, di storie, se vogliamo. La figura della donna che dai primi miti riaffiora a fasi alterne in ogni letteratura, non è altro che la traslazione della natura in sé, Ms Mother Nature, benevola madre della vita e signora della morte, colei che tutto dona e al tempo stesso tutto può togliere.
Nel 1887, Henry Ridder Haggard pubblicava She. In un romanzo in stile “mondo perduto”, due avventurieri si recavano in Africa alla ricerca di una misteriosa sacerdotessa che aveva ucciso un antenato di uno dei due. Là, in un templio dimenticato, nel territorio di una tribù di selvaggi, incontravano Lei (she-who-must-be-obejed), creatura dalla bellezza surreale, della modesta età di duemila anni e – hold your breath – vergine! In una trama da telenovela, in una serie infinita di reincarnazioni, si consumava la storia d’amore e gelosie tra Lei, la donna eterna, e gli amanti di quell’era, reincarnati amori passati e perduti che Lei aveva aspettato per secoli e secoli, senza il sostegno dei quali, seppur immortale e con super-poteri, non avrebbe mai osato avventurarsi alla conquista del mondo (lol).
Incredibilmente, She fu un super best-seller, nonché una colonna portante dell’immaginario del lettore del tempo – specialmente maschile. Si potrebbe dire che, al culmine del gusto macabro della letteratura vittoriana, la terribile She – pur rimanendo una benevola madre natura wordsworthiana – non facesse altro che incarnare le paure di un’intera società – bianca, maschile, inglese – riguardo al ruolo sociale e politico della donna sull’orlo di un cambiamento epocale (il movimento delle suffragette si costituì in Inghilterra ufficialmente nel 1872).
Era il destino della letteratura – e della donna – quello di rimanere intrappolata in questa visione manichea della propria natura? Una risposta la diede Tolkien (e non per parlare sempre di lui, bensì come esempio per un intero genere letterario). Ne Il Signore degli Anelli, come in infinite opere fantastiche sino ai giorni nostri, She è presente. Tolkien non negò assolutamente la natura simbolica del femminile affondata nel mistero stesso della vita, la incarnò anzi in due personaggi opposti: da una parte l’angelica, saggia e bellissima elfa Galadriel, che caso strano venne fornita dello stesso “specchio veggente” posseduto dalla Lei di Haggard; dall’altra parte, molto esplicitamente, Shelob, regina dell’ombra, ragno mangia uomini.
Tolkien lanciava però una provocazione (si considerino i tempi): Éowyn. Nel mezzo delle figure archetipali femminili, compariva una ragazza, figlia, sorella, innamorata di chi voleva lei, disobbediente all’autorità familiare imposta, guerriera, donna, capace di riuscire là dove uomini avevano fallito. La provocazione, da buon filologo, Tolkien la faceva partire dal linguaggio stesso, ed è più che mai attuale: nella battaglia che infuria sui Campi del Pelennor, il Signore dei Nazgûl dichiara: «Nessun uomo può uccidermi!». Éowyn allora si toglie l’elmo: «Idiota, avresti dovuto dire nessun essere umano può uccidermi, perché no living man am I! You look upon a woman!» E zak, via la testa.
Dopo Tolkien, il fantasy ha cercato di dare voce a mille altre Éowyn. Personaggi femminili reali capaci di trascendere il dualismo primordiale di She, al tempo stesso onorandone il mistero; non sempre riuscendoci. Già, perché il mistero del femminile perdura, con la sua sacralità e il suo fascino, tanto nel Primary World che negli altrove. E forse proprio una scrittrice fantasy non poteva che dircelo nel modo migliore.
«– Che cosa c’è che non va negli uomini? – chiese Tenar, con cautela.
Con la stessa prudenza, abbassando la voce, Muschio rispose: – Non saprei, cara. Me lo sono chiesto molte volte. La migliore risposta che ho trovato potrebbe essere questa: un uomo sta dentro la sua pelle come una noce nel suo guscio. – Sollevò la mano e gliela mostrò, curvando le dita lunghe e bagnate come se tenesse una noce tra il pollice e l’indice. – Il guscio è duro e robusto, ed è pieno di lui. Pieno della sua polpa di uomo, della sua personalità. E nient’altro. Dentro il guscio c’è solo lui e nient’altro.
[…]– E per una donna, allora?
– Oh, be’, cara, per una donna è tutto diverso. Chi può dire dove inizia e dove finisce una donna?»
(Ursula K. LeGuin, L’Isola del Drago)
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Ci ritroviamo on line il 15/07/2013 con la puntata n. 6 della Rubrica Nella pancia del drago: Salve, sono un orfano, e sono il Prescelto.
Quand’è che un legittimo tòpos letterario diventa un cliché? E quante volte in caccia estatica di cliché ci si dimentica cosa sia un tòpos letterario e perché sia legittimo?
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