"Ero cattivo" di Antonio Ferrara
I bambini e i ragazzi amano il lieto fine?
Abbiamo sempre pensato di sì, e probabilmente possiamo continuare a pensarlo. Finché resiste il mito del bambino innocente e indifeso, che ha bisogno di essere protetto e rassicurato, il lieto fine delle storie (in particolare, quello delle favole e delle fiabe, ma la faccenda non cambia se passiamo ai libri per i più grandicelli) risponde a una necessità quasi sociologica; in ogni caso, non si possono dimenticare le convenzioni di genere, che fanno del lieto fine una caratteristica d'obbligo di determinate produzioni, ad esempio della commedia. Con questa faccenda si scontrò anche Carlo Collodi, quando terminò la storia di Pinocchio con il burattino che oscillava tristemente impiccato a un albero dal Gatto e dalla Volpe: le proteste dei lettori furono tante, anche a causa dell'interruzione della storia a puntate, che Collodi riprese a scrivere e giunse al tanto agognato lieto fine, con Pinocchio trasformato in bambino che osserva soddisfatto il burattino lasciato su una sedia. Se si tratti veramente di lieto fine, per altro, non è ora il momento di discuterne.
Il lieto fine conclude anche il romanzo di formazione, sempre per la faccenda del genere letterario: la formazione si deve concludere con esito positivo, o di formazione non si parli. Siamo del tutto certi, però, che i ragazzi d'oggi vogliano il lieto fine? Più in generale, siamo convinti che gli unici personaggi amati siano quelli buoni, che funzioni ancora bene la dinamica tra eroe senza macchia e antagonista cattivo?
No, certo che no. Artemis Fowl, per citare almeno il più famoso, ci ha insegnato che anche i cattivi vogliono la loro parte, e la riscuotono con successo. E così pure Antonio Ferrara, autore tra gli altri di Come i pini di Ramallah e di Pane arabo e parole, sembra poco convinto che solo i buoni meritino di sentirsi raccontata la loro storia.
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Angelo è, quindi, il protagonista di Ero cattivo (un titolo, un programma), edizioni San Paolo, storia di un ragazzo difficile che, proprio all'inizio della vicenda, passa ogni limite e ne combina una che non può essere perdonata. Un episodio gravissimo, avvenuto a scuola, sede privilegiata delle sue scorribande e delle sue azioni; un episodio del però, per una volta, non aveva davvero calcolato le conseguenze. Ma si sa che alcune profezie si autoavverano; e quindi Angelo passa dalla parte del bulletto, o dell'iperattivo, o del teppista (termini mai impiegati dall'autore) a quella del criminale, forse senza volerlo. E viene mandato in una bizzarra, ma poi neanche tanto per chi conosce l'ambiente, comunità di recupero, gestita da un prete, Padre Costantino, con l'aiuto di una certa Margherita, che svolge le mansioni di cuoca.
Ferrara decide di darci nuova prova del suo talento. Il tono, innanzitutto: la vicenda, che potrebbe essere all'origine di un bel plot melodrammatico, viene narrata con toni leggeri, surreali; si sorvola sul male e si prova a guardare quel bene che Angelo è incapace di cogliere, ma senza scadere in effetti stucchevoli e surreali. Poiché Angelo non sa vedere e apprezzare il bene, tutte le cose positive scivolano poco alla volta nel suo disinteresse e nella sua diffidenza. Si ride, a volte, nel corso di romanzo; altre volte prevale la commozione, sia per ciò che avviene sia per il senso di frustrazione e impotenza che noi pure siamo portati a provare. Ci chiediamo, forse, se saremmo in grado di salvare Angelo, e tutti probabilmente pensiamo di non essere all'altezza di un compito tanto arduo. Colpisce poi, in seconda battuta, proprio il punto da cui siamo partiti: no, non esiste sempre il lieto fine. Noi lo vorremmo, perché ci rassicura; eppure la vicenda di Angelo rimane sospesa in un limbo non chiaro, poco definito ancora, in cui sono stati fatti passi avanti ma sono segnalate anche gravi sconfitte. Solo l'imperfetto del titolo ("ero") ci può garantire una parziale verità. Perché in fondo, più che il bene e il male, Ferrara preferisce provare a raccontarci la realtà.
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