Emily Dickinson e la sua natura. “Le città di carta” di Dominique Fortier
Emily Dickinson è stata una tra i maggiori poeti moderni. La cosa che mi ha maggiormente colpito leggendo le sue poesie è stata la scrittura potente, un vocabolario ricchissimo e la capacità di trattare temi come amore, morte ed eternità pur avendo condotto per la maggior parte della sua vita un’esistenza da reclusa, in un isolamento volontario.
Emily è la protagonista del libro di Dominique Fortier, dal titolo Le città di carta, pubblicato dalla casa editrice AlterEgo e con la traduzione di Camilla Diez. Questa donna, che ha amato la poesia in modo da annullarsi completamente, ci viene descritta con un discorso frammentato tra presente e passato. La Dickinson – scrive l’autrice – è carne, sangue e inchiostro che le scorre nelle vene, le parole sono rosso lampone, attinte dalle sottili linee blu che palpitano sotto la sua pelle.
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La poetessa nacque nel 1830 ad Amherst, ed è questa la prima città di carta di cui leggiamo. Figlia di mezzo tra suo fratello Austin e sua sorella Lavinia, Emily è una ragazza dagli occhi neri e i capelli scuri con un unico vizio che è quello della gola, infatti è solita rubacchiare fette di crostata. Si direbbe di lei che è una bambina vivace e solita fare ogni tipo di marachelle. Da subito la giovane sperimenta il suo talento nella scrittura e nella botanica mentre studia all’Amherst Academy, un istituto fondato dal nonno e di cui suo padre è tesoriere.
«Emily non è mai stata a messa ma s’inginocchia ogni mattina davanti ai fiori. Non ama diserbare, le piante cosiddette cattive sono buone come le altre, e le lascia crescere volentieri in mezzo a quelle che ha piantato. Il giardino le appartiene solo in parte; l’altra metà è frutto delle api. Emily saluta le piante chiamandole per nome, come se si rivolgesse sussurrando alle sue amiche: Iris, Rosa Carolina, Prugnola, Marijuana, Gilia, Campanula. I fiori le rispondono con il suo nome: Emily, aemula, rivale. Di tutti i gigli, lei è il più bianco. Emily, l’assente da tutti i banchetti.»
Successivamente, inizia un seminario al Mount Holyoke Female, ma subito dopo il suo ingresso ritorna a Homestead poiché i genitori sono preoccupati per la sua salute fisica, difatti non è riuscita a guarire bene da un’infezione respiratoria. Ritorna a casa occupandosi di varie faccende domestiche e felice in cuor suo di questo rientro.
La sua migliore amica è da sempre Susan, ma a un certo punto il loro rapporto cambia, l’amica infatti inizia a passare sempre più tempo con Austin provocando in Emily forti sentimenti di gelosia. Il rapporto tra i due cresce, i due si innamorarono e poco dopo si sposano andando ad abitare vicino la casa dei Dickinson.
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Chiunque si sia approcciato alla vita di questa donna ha da sempre cercato cosa l’abbia portata all’isolamento in così giovane età: un trauma, un amore non corrisposto, un tradimento, una malattia. Leggendo Le città di carta invece troviamo che la Fortier non ricerca nessun evento, nessuna catastrofe o svolta nella vita della poetessa. Il ritiro di Emily è graduale, rafforza solo le sue consuetudini, richiudendosi sempre più in quello che è realmente, nella sua solitudine, nel suo silenzio; non è nascosta come tutti possono pensare ma viva in tutte le cose che la circondano e soprattutto nella natura che la attornia: gli animali, le piante, il cielo.
«Le poesie che chiama neve le concepisce come fiocchi delicati e aerei, di una fragilità quasi soprannaturale – un finissimo merletto di parole. Ma nello scrivere neve, ciò che Emily ha dietro le palpebre è la più potente delle valanghe.»
Le città di carta è una biografia singolare come l’autrice che viene raccontata. I momenti di cui Dominique Fortier ci narra sono frutto di una lunga ricerca tra biografie, immagini e testimonianze. Altri momenti invece, sono frutto della sua immaginazione.
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Le città che incontriamo leggendo il libro sono Homestead, Amherst, luoghi che alcune persone hanno solo letto sulla carta e che possono attraversare solo leggendo e usando l’immaginazione.
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