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Emigranti e immigrati, c’è un rapporto?

Emigranti e immigrati, c’è un rapporto?Torna attuale una domanda: c’è un rapporto tra emigranti e immigrati? A differenza di quello che pensano molti italiani, prede della rabbia contro l’inefficienza dello Stato e della politica, non c’è un rapporto strettissimo tra emigrazione ed immigrazione, perché la prima risponde a un’esigenza di innalzamento della qualità della vita e la seconda a una certa domanda di lavoro non soddisfatta in Italia. Non è quindi possibile mettere sullo stesso piano un laureato italiano emigrante con un immigrato sudanese che raccoglie pomodori a Nardò: perché il primo non farà mai il bracciante, il secondo non toglie lavoro al primo.

Detto questo, il fenomeno dell’emigrazione dall’Italia verso l’estero è in aumento perché la crisi ha inevitabilmente massacrato il mercato del lavoro per i più qualificati e il sistema di welfare per i precari. Noi viviamo in un Paese che ha smantellato il welfare pubblico, che ha tagliato gli investimenti nei trasporti, ha indebolito il sistema scolastico e universitario, mentre sosteneva un’impresa che ha abbassato la qualità e la quantità della domanda di lavoro.

In questa situazione, la forbice tra titoli di studio (più alti di un tempo) e possibilità occupazionali decenti (ora bassissime) si è allargata e ha spinto un numero crescente di italiani fuori dal Paese. Non si tratta più di giovani con la valigia di cartone, ma di giovani globalizzati che si muovono verso mete diverse da quelle dei nonni e dei padri, alla ricerca di società, prima che di lavoro.

Dunque la dimensione dell’emigrazione è qualitativamente diversa dal passato, tanto è vero che questi emigranti non si costituiscono in comunità (Little Italy è ormai impensabile), ma sono già dentro piccole o medie comunità transnazionali (di quartiere, come a Kreutzberg, a Berlino), locali (come nel caso dei ricercatori nei campus), culturali (di gusti, di consumi, di preferenze), eccetera. Si dispongono lungo la filiere di opportunità offerte da diverse società ospiti, talvolta cambiando meta e destinazione con una relativa facilità e rapidità.

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È il segno dei tempi, la deterritorializzazione sociale che infragilisce le identità radicate (quelle nazionali soprattutto) riducendole a forme di folklore, mentre irrobustisce le identità professionali e simboliche (le crew, le posse, le comunità di consumo culturale, ecc.).

Lo stesso nel mondo imprenditoriale, attratto non già da finanziamenti e sostegni all’impresa, quanto da apparati di servizi e di infrastrutture che in Italia non ci sono e non ci saranno ancora per chissà quanto tempo.

In definitiva, l’Italia è ancora dentro la filiera migratoria internazionale, lo rivela il saldo migratorio tornato ad essere negativo, ma non ne ha preso coscienza.

Diciamo che un certo provincialismo da parvenu non ci fa ancora ammettere ad alta voce che:

  1. non siamo fuori della crisi ed è quindi giustissimo che si cerchi la vita altrove;
  2. ogni Paese dà e riceve manodopera ed esseri umani in base a variabili che non sono più quelle fordiste o quelle demografiche, ma sempre più di ricerca di una vita qualitativamente diversa;
  3. inutile prendersela con gli immigrati, perché non rubano lavoro a nessuno ma sostengono il sistema previdenziale e quello economico-produttivo, anche quando sono a nero;
  4. l’impianto dei servizi (welfare, sanità, trasporti, scuola, ecc.) è talmente basso da non essere allettante nemmeno per chi da fuori vuol trasferirsi in Europa.

E questo spiega perché non v’è rapporto stretto tra emigranti e immigrati.

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