Elsa Morante, la scrittrice selvatica e anarchica
Elsa Morante è una tra le figure più importanti della narrativa contemporanea, non solo confinata al Novecento letterario italiano se ci rifacciamo al giudizio entusiastico del celebre filosofo e critico letterario György Lukács che la annoverò, in un articolo apparso su «Rinascita» il 27/10/1967, assieme a O’Neill, a Wolfe e a Styron, tra gli scrittori che hanno rivelato l’alienazione del mondo borghese, compiendo rivolte potenti ma solitarie. Lukács stava dando un’interpretazione sociologica e marxista di Menzogna e sortilegio, una delle opere capitali della Morante, e questo potrebbe fuorviare, in parte, quel lettore che cerca di accostarsi alla singolare personalità di questa scrittrice. Noi ci sentiamo di tratteggiarla, invece, come uno dei pochi veri narratori della letteratura italiana del Novecento, in linea con Carlo Sgorlon, un altro dei suoi estimatori e critici,
Elsa Morante fu narratrice di favole e incanti, pure se sostenute da una solida ideologia, ma la sua opera si pone in netta contrapposizione con il panorama italiano ed europeo a lei coevo. In un’Italia composta per la massima parte da letterati (nell’accezione propria e “accreditata” del termine), da intellettuali, retori, saggisti, strutturalisti e sperimentalisti, e nella temperie europea di autori che scardinarono le strutture narrative tradizionali: Proust, Joyce, Musil, Kafka, i nostri Svevo e Pirandello, Elsa Morante fu scrittrice selvatica e anarchica, scollata dalla storia e refrattaria a quel neorealismo molto in voga al suo tempo. Queste sue peculiarità, unite ad alcune caratteristiche psicologiche e alle sue traversie esistenziali, conservarono integra la sua capacità di narrare laddove una serie di vicende storiche e culturali pareva aver spento negli scrittori la facoltà primaria di affabulare, per sostituirla con la riflessione sulla scrittura stessa, con la metaletteratura.
Elsa Morante nasce a Roma nel 1912, e trascorre l’infanzia nel quartiere popolare del Testaccio. «La mia intenzione di fare la scrittrice nacque, si può dire, insieme a me […] Nello scrivere mi rivolgevo, naturalmente, alle persone mie simili; e perciò fino all’età di quindici anni circa, scrissi esclusivamente favole e poesie per bambini». Dal 1933 e fino all’inizio della seconda guerra mondiale queste sue prime prove vengono ospitate su riviste come «Il Corriere dei Piccoli» e «Il Meridiano di Roma». Quel che colpisce in queste novelle è, prima di tutto, l’estraneità ai modelli della letteratura per l’infanzia dominanti nel periodo tra le due guerre. Il suo primo libro edito fu proprio una raccolta di racconti giovanili, Il gioco segreto (Garzanti, 1941), che rivela tutta la sua freschezza e originalità, la sua propensione per la fiaba: vi si trovano infatti atmosfere oniriche e visionarie, la tendenza a sublimare il reale e proiettarlo in una dimensione fantastica. In questi racconti c’è tutto l’apprendistato della scrittrice futura, i motivi e le riflessioni che svilupperà nel corso degli anni: la costruzione del racconto come una cattedrale, per stratificazioni, l’analisi quasi freudiana o junghiana del sogno e delle sue proprietà simboliche e allegoriche, la necessità dell’adozione di una “prima persona” a cui delegare la conduzione della storia, espediente che adotterà in quasi tutti i suoi romanzi.
Nel 1941 Elsa Morante sposa Alberto Moravia, che aveva conosciuto cinque anni prima. Insieme la coppia frequenta gli scrittori e gli uomini di pensiero italiani più influenti del loro tempo: tra questi Pier Paolo Pasolini, col quale stringe una duratura amicizia, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Sandro Penna, Enzo Siciliano e Attilio Bertolucci. Sono gli anni della gestazione di Menzogna e sortilegio, il suo primo romanzo, che esce per il tramite di Natalia Ginzburg da Einaudi nel 1948. Il libro le fa vincere lo stesso anno, col sostegno di Giacomo Debenedetti, il Premio Viareggio. Menzogna e sortilegio è un romanzo estraneo a ogni collocazione storica e letteraria; la vicenda è raccontata in prima persona dalla voce di Elisa, una ragazzina siciliana rimasta orfana in tenera età. Elisa viene portata a Roma da Rosaria, una prostituta ch’era stata amante di suo padre Francesco, prima e dopo il matrimonio con Anna, sua madre. Dopo la morte di Rosaria, la protagonista, ormai sola al mondo, si rinchiude in solitudine nelle sue stanze per raccontare la storia della sua famiglia. I primi episodi riguardano la vita di Cesira, la nonna di Elisa, una maestrina che riesce a farsi sposare da un nobile anziano e in rovina. Da questo matrimonio, che si rivelerà un totale fallimento, ha origine Anna, la madre di Elisa. La triste eredità sembra ripetersi, sia pure con diversi modi, quando Anna s’innamora del cugino Edoardo, che per un po’ la ricambia, pur dominandola con ferocia e accanimento, e poi l’abbandona. Ridotta in miseria, Anna è costretta a sposare Francesco, che rinnega le sue umili origini, venuto in città dalla campagna per i suoi studi universitari. L’uomo sogna titoli nobiliari e il prestigio politico, e adora Anna solo per il suo sangue nobile. Tutti i personaggi sono infatuati e schiavi del personaggio più straordinario di tutto il libro: il bellissimo quanto capriccioso e tirannico Edoardo, il patrizio che sembra essere l’incarnazione del destino.
La critica dell’epoca si divide tra il considerare Menzogna e sortilegio come la rappresentazione di un mondo magico e fiabesco, privo di agganci col reale, oppure la denuncia di un mondo antico e ancestrale, la mentalità assurda di una società feudale e piccolo-borghese. Di certo il romanzo mette in scena la distorsione mentale di una società in cui l’uomo non è libero ma si rende schiavo da sé. Anche se i riferimenti al Mezzogiorno d’Italia sono sempre vaghi e larvati (il periodo storico potrebbe essere quello dell’Ottocento post-borbonico, e la Sicilia non viene mai nominata, se non nel nome del suo capoluogo, con la lettera P.), c’è in Morante un forte interesse per la mentalità meridionale, che all’epoca di questo romanzo si deve in minima parte a suo padre e in più larga parte a un tenace sentimento atavico che la lega al popolo, a questa pittoresca e ciarliera umanità. A parte qualche civetteria da scrittrice, per la Morante la meridionalità è una categoria spirituale, una disposizione alla ritualità, alla frenesia dei sentimenti, al coup de théâtre barocco, a un’esuberanza linguistica e d’immaginazione.
Il successivo romanzo, L’isola di Arturo, viene dato alle stampe nel 1957 sempre da Einaudi. Ne è protagonista Arturo Gerace, orfano di madre, morta nel darlo alla luce. Il giovane cresce nell’isola di Procida, in una sorta di bolla temporale, quasi abbandonato a se stesso, con un padre spesso assente, affidato al balio Silvestro, prima, e poi al domestico Costante. Quando il padre conduce nell’isola una ragazza napoletana, Nunziatina, Arturo passa attraverso varie fasi sentimentali, ma finisce per innamorarsi della sua matrigna che lo rifiuta con orrore. Da adulto lascerà l’isola, che nella sua memoria si trasforma in una sorta di paradiso terrestre perduto, al quale guarderà sempre con struggente nostalgia. L’isola di Arturo è l’antitesi di Menzogna e sortilegio: il primo romanzo ha come fondale il cupo mondo siculo e la sua società stregata; il nuovo romanzo ha una vocazione quasi rousseauiana nel raccontare una fanciullezza non ancora contaminata da preconcetti sociali e deformazioni ideologiche. Arturo è l’Émile che vive a contatto con la natura, libero di sviluppare le sue fantasie eroiche, fino a raggiungere, al termine di prove ardue e dolorose, la conquista di una maturità che segna anche la fine di un’età felice e spensierata. C’è il tema dell’isola, luogo mitologico ed esotico, remoto e protetto dai clamori del mondo esterno; ci sono echi omerici ma non dimentichiamo che Arturo è anche un cavaliere della tavola rotonda. Arturo Gerace idolatra il padre assente per crearsi una personale mitologia. Il tema dell’idolatria imparenta i personaggi di Menzogna e sortilegio con L’isola di Arturo e con la feticizzazione del padre Wilhelm Gerace, capelli biondi e occhi celesti: un normanno, un sanguemisto come le numerose creature che popolano il Mediterraneo. Tutto quel che riguarda suo padre ha per Arturo qualcosa di sacro: il padre è un dio che non è soggetto ad alcun dovere, che si concede solo quando gli aggrada, proprio come il patrizio Edoardo, centro focale del primo romanzo morantiano. Con la raggiunta maturità e il conseguente risveglio della ragione, l’idolatria finisce, il mito si dissolve e si realizza il definitivo distacco dall’infanzia. Come scrive Sgorlon: «Mai come nel finale elegiaco de L’isola di Arturo la Morante rivela così forte la convinzione che la vita è un sogno e un mistero che a volte sembrano non appartenerci, che paiono vissuti da un altro […]».
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Nel 1963 esce Lo scialle andaluso, una silloge in cui confluiscono alcuni dei racconti già pubblicati in Il gioco segreto. Morante e Moravia si sono separati solo tre anni prima, senza divorziare. Dopo una sbandata per Luchino Visconti, la Morante si lega a un giovane pittore di New York, Bill Morrow, che muore suicida nel 1962, precipitando da un grattacielo. L’elaborazione del lutto per la perdita di Morrow e una nuova consapevolezza del mondo e della sua arte la portano a pubblicare, nel 1968, Il mondo salvato dai ragazzini. Si tratta di un’opera singolare e composita, che contiene poesie, canzoni definite “popolari” e un atto unico, un prodotto che sfugge a ogni classificazione letteraria e si può inquadrare come una contestazione dell’autrice nei confronti dei generi letterari e la ricerca di nuove forme del raccontare. Com’è cambiata, nel frattempo, Elsa Morante? La scrittrice si mette a nudo senza schermi: è sola, si sta leccando le ferite che la vita le ha inferto, è consapevole del dolore del mondo, delle beffe che ha in serbo la Storia e della follia della civiltà atomica. Si rifiuta di salire sulla giostra della società, di cui non condivide gli interessi, i piaceri e le mode. Celebra l’anticonformismo degli artisti, dei freak e degli hippy, dei puri di spirito, i soli che «s’interessano delle cose serie e importanti». Non è un caso che nella canzone che dà il titolo alla raccolta la Storia è diventata la “Grande Opera”, un enorme e incomprensibile spettacolo dove tutti sono invitati e, volenti o nolenti, devono recitare. Solo Pazzariello, un ragazzino semideficiente, si oppone a questo stato di cose vagando per le strade e suonando l’ocarina. Candido, ricciolino come gli angeli delle borgate nei film di Pasolini, Pazzariello rifiuta senza saperlo una civiltà aggressiva e materialista.
La Storia (Einaudi, 1974) è in apparenza un romanzo neorealista, quando il neorealismo è ormai un genere abbandonato da qualche decennio. Motivo in più per ribadire l’obbedienza della scrittrice unicamente alle sue esigenze espressive più profonde, in barba alle tendenze dominanti. In La Storia vengono raccontate le tragiche vicende di una famiglia meridionale a Roma, nell’immediato periodo post bellico. La madre, Ida Ramundo, è una maestrina vedova che viene violentata da un soldato tedesco ubriaco. Da questo stupro nascerà Useppe, un fanciullo gracile che morirà di epilessia prima di arrivare ai cinque anni. Dal suo matrimonio Ida ha avuto un figlio, Nino, un ragazzo spavaldo e avventuriero che abbandonerà il liceo per farsi partigiano e spostarsi al Sud, oltrepassando le linee nemiche. Alla fine della guerra lo vediamo coinvolto in attività di contrabbando, per poi morire in un incidente stradale, inseguito dalla polizia. Perduti i due figli, Ida precipita nella follia e si spegne dopo qualche anno di manicomio. Le pagine della Morante si ammantano di poesia quando racconta di come Ida, durante la guerra, infrange il suo codice morale, il suo perbenismo piccolo-borghese compiendo furti e saccheggi, pur di nutrire il piccolo Useppe. Per la scrittrice – che non ha mai avuto figli – la maternità è un momento arcano, una ninna nanna primordiale, uno degli aspetti più divini nel grande enigma della Natura, ma in questo romanzo l’ideologia è palese: la Storia è «uno scandalo che dura da diecimila anni». Tutte le strutture sociali organizzate sono l’espressione della prevaricazione dei potenti sugli umili e indifesi, per i quali la scrittrice ha un occhio di riguardo: loro avranno la salvezza eterna, là dove per i borghesi ci sarà solo la dannazione della Storia.
Il mio percorso sui motivi che allacciano a filo doppio la vita e le opere di Elsa Morante non può esimersi da un accenno al suo ultimo libro, Aracoeli (Einaudi, 1982), dove si viene accentuando nella scrittrice la visione pessimistica e tragica del mondo, la sua pietas per le povere vittime della Storia e della Natura. In Aracoeli un quarantenne, Manuele, racconta il suo fallimento esistenziale, dovuto a un morboso complesso edipico nei confronti della madre, Aracoeli, una giovane andalusa analfabeta di cui si è innamorato suo padre, ufficiale di marina piemontese, di nobili origini. La famiglia di lui, dopo aver condannato la relazione e considerato Manuele un bastardo, convince la coppia a un matrimonio riparatore. La famiglia risiede nei quartieri alti, a Roma, ma a un breve periodo in cui Aracoeli impara i modi borghesi, segue uno sviluppo inquietante. La donna diventa una ninfomane, volgare e senza freni: si accoppia con sconosciuti e alla fine si allontana dal marito e dal figlio. Questo drastico cambiamento di rotta è dovuto al manifestarsi di una terribile malattia che corrompe per gradi il suo corpo e la sua mente, portandola alla morte.
C’è molto della Morante in questa sua ultima prova narrativa. Mi riferisco alla propensione a mitizzare, come in Arturo, le figure dalle quali il personaggio succube dipende. Manuele si reca in Andalusia, col pensiero vago di ritrovare un pezzetto del paradiso in cui viveva accanto a sua madre, ma la Spagna è un altro inganno, un luogo trasfigurato e magico, qui di segno negativo: infernale e inattingibile. C’è il culto di una bellezza vagheggiata che si trasforma nel suo contrario. Morante è tornata al suo registro, ma questa volta è più lugubre e funerea. Il lettore non apprezzerà più la leggerezza della fiaba e del sortilegio: Aracoeli è l’inno tragico del corpo che si disfa e non ci risponde più: è una nostra appendice ma può incorrere in una metamorfosi inaspettata, violenta e senza rimedio. È come se la Morante affermasse: «Aracoeli sono io!». Il parallelismo con la biografia dell’autrice è in effetti evidente. Sempre più sola e malata – è costretta a una lunga immobilità, a causa di una frattura del femore occorsale mentre stava ultimando il romanzo – scopre di essere gravemente ammalata. Tenta il suicidio ma viene salvata in limine e ricoverata in una clinica, dove si sottopone a un delicato intervento chirurgico che però non le giova. Muore di infarto nel 1985.
La sua intuizione poetica è stata impressionante: siamo stranieri nel mondo che abitiamo, abbandonati anche dal nostro corpo, che non risponde più alle nostre necessità, esiliati dal consorzio degli umani e dalle vastità infinite del cosmo, destinati a non comprendere nulla del mistero che ci sovrasta. Questa è la riflessione senza appello e insieme il ricordo, a 30 dalla scomparsa, di Elsa Morante, uno dei più grandi talenti narrativi che l’Italia abbia mai avuto.
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