Editing ‒ Dai marchi alle storie
Ho parlato nelle scorse puntate di come si potesse riflettere sul punto di vista, nell’ultima citavo Burroughs e il suo approccio per immagini. Oggi provo ad allargare i confini cercando di presentare un tema che soltanto in apparenza pare distante dall’editing.
Naomi Klein, giornalista e scrittrice, esordì nel 2000 con il saggio No Logo, raccontando il fenomeno della gestione dei grandi marchi internazionali e delle conseguenze sul mercato del lavoro. Un’idea alla base ‒ semplificando per introdurre un concetto ‒ che descrive come principale obiettivo di produzione delle grandi aziende non tanto i prodotti quanto invece i marchi. Poi la situazione, negli anni, cambiò per giungere a un nuovo sviluppo: dai marchi alle storie. Si chiudeva l’epoca delle strategie per il branding e si apriva definitivamente quella della narrazione, ovvero l’abilità di comunicare la propria storia nel modo più credibile ed efficace possibile, così da palesare l’autenticità attraverso lo storytelling. Non più l’immagine, ma la storia di un marchio, con la necessità di una narrazione e di una contronarrazione: coinvolgere e fidelizzare i clienti raccontando loro storie edificanti, credibili ed emozionanti di un’azienda.
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I loghi sono stati sostituiti dai personaggi: l’operaio con una storia da raccontare, la commessa con una storia da raccontare, il web developer con una storia da raccontare. Ognuno, dentro un’azienda, può diventare strumento di comunicazione. Questo in ambito aziendale.
Se pensate ai social network è chiara l’evoluzione: negli ultimi anni le stories sono diventate pervasive sia su Facebook sia su Instagram. Aziende che permettono lo storytelling a ognuno di noi, l’apice del sistema.
Voi potreste dire che non è nulla di nuovo se si pensa a Omero o ad Aristotele, certo, ma la differenza è l’ecosistema dei lettori (o dei consumatori), perché tutti siamo inseriti, grazie anche al digitale e in maniera trasversale nella società, in continue relazioni da storytelling. Non era così un tempo.
L’universo narrativo di un romanzo si dovrebbe reggere su una storia credibile. Come fa l’editor a capire se una storia è credibile?
Un noto produttore televisivo inglese ebbe a dire: «L’unica inquadratura che davvero interessa a qualunque regista televisivo è il primo piano di un volto nell’istante in cui cambia espressione». I momenti di cambiamento sono fondamentali in una storia, ancor più quando coinvolgono i personaggi. La capacità di convincere il lettore che da lì a poco ci saranno novità, presumibilmente fosche novità, rappresenta il campo dentro cui l’editor dovrebbe lavorare per aiutare lo scrittore a capire che tale concetto è una priorità assoluta in una storia.
Pensate, inoltre, a quanto potenti sono le evocazioni di oggetti o colori o suoni, per non parlare dei gesti. Mentre leggiamo il nostro cervello, a livello inconscio, prova continuamente a fare previsioni sulla base di ciò che incontra e quando la storia cambia lasciandoci nella meraviglia allora vogliamo andare avanti con la lettura per capire che cosa accadrà.
Unite i puntini: storytelling, cambiamenti (soprattutto quando riguardano i personaggi), evocazioni e previsioni fallite. Ecco come creare una storia credibile.
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Quanto bravi sono gli scrittori a controllare tali aspetti? Mi baso sulla mia esperienza: poco e male. Magari uno è bravo nei cambiamenti e non lo è nel resto, difficile trovare uno scrittore ben equilibrato nei diversi elementi. L’editor, al netto del controllo sul rigo e di tutti quegli interventi che servono a strutturare meglio un romanzo, dovrebbe sempre interrogarsi sui quattro punti menzionati poc’anzi. Un modo preciso per comprendere se una storia è credibile.
Introdotti i concetti di punto di vista e di credibilità, possiamo ora tornare a parlare del rimando funzionale, che non è il cliffhanger.
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