Ecco perché dobbiamo fare i conti con i classici
Mary Beard, docente di Letterature classiche a Cambridge, propone con il suo ultimo lavoro – Fare i conti con i classici, Mondadori, 2017 (traduzione di Carla Lazzari) – un lungo viaggio nel mondo greco e romano. Lo scopo di questo itinerario è un’indagine che attraversa non solo figure celebri come Annibale e Cicerone, Cleopatra e Alessandro Magno, ma si sofferma anche sugli aspetti più comuni dell’esistenza e della consuetudine degli abitanti dell’impero romano: schiavi, soldati, donne. Una scorribanda nel mondo classico che passa per la valorizzazione di ogni genere di fonte a disposizione – comprese quelle che, come scrive la Beard, sono state troppo spesso trattate dagli storici con “snobismo”. Basti pensare alla celebre “tomba del fornaio”, straordinariamente conservatasi fino ai nostri giorni, ma sempre declassata dal punto di vista artistico perché fatta erigere da un liberto.
Un’opera che muova tutta la sua narrazione attraverso questi contesti non può non parlare del dibattito sempre vivo sulla validità degli studi classici. Le consuete e retoriche domande “a che serve studiare il latino?”, “i classici hanno futuro?”, vengono qui riaccolte per riaprirsi a nuove risposte.
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Così la Beard nell’Introduzione:
«Ciò che conta, sul piano culturale, è che alcuni abbiano letto Virgilio e Dante. In altri termini, la forza globale dei classici non si misura in base al numero dei giovani che hanno studiato latino e greco al liceo o all’università. La si misura meglio se si domanda quanti ritengano necessaria la presenza nel nostro mondo di persone che conoscano il latino ed il greco, quanti considerino queste competenze importanti e, in ultima analisi, meritevoli di essere pagate».
Fa anche notare che nonostante i classicisti di ogni epoca abbiano sempre lamentato la decadenza degli studi classici, questi invece, incuranti delle chiacchiere, sono sempre sopravvissuti a chi ne preannunciava la fine. Perché il potere delle opere di Tucidide, Euripide, Tacito e Cicerone non risiede soltanto nelle sudate carte di chi dedica loro la vita, ma anche negli artisti che li leggono, o semplicemente li reinterpretano e ne rielaborano il messaggio, nei politici che si nutrono della loro arte retorica, e in generale in tutti coloro che nella cultura classica riconoscono ben salde le proprie radici, foss’anche solo per il fatto d’esser nati in Europa.
L’autrice definisce coloro che riutilizzano, attraverso il dialogo con esso, un testo antico, “collaboratori degli autori classici” e scrive:
«A questo proposito lasciatemi ricordare le versioni sfacciatamente moderne dell’Iliade realizzate dal poeta inglese Christopher Logue […] che Garry Wills ha definito «la migliore traduzione di Omero dai tempi di Alexander Pope». Un apprezzamento sincero, credo, ma anche un poco ironico: Logue, il nostro maggiore collaboratore di Omero, non sapeva una parola di greco».
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La Beard passa al setaccio i secoli attraverso il lavoro di artisti e studiosi, risolleva problemi storici e di traduzione delle fonti, mette in evidenza i punti in cui l’immaginario collettivo si è mantenuto fedele alla realtà e quelli in cui ne è stato invece fortemente deviato: basti pensare al riutilizzo in funzione propagandistica di Cicerone e Tucidide che hanno fatto tanti politici inglesi del secolo scorso, o il Satyricon di Petronio passato attraverso l’operazione creativa di Federico Fellini, o ai piccoli errori filologici e di traduzione commessi dagli studiosi nel corso del tempo. Ennesimo esempio è quello che riguarda Tucidide: Hornblower, nel suo commento alla Storia della guerra del Peloponneso, dimostra che Tucidide non ha mai scritto molte di quelle cose che con forse eccessiva naturalezza gli attribuiamo. Dice la Beard:
«Tucidide scrive, sempre secondo il molto citato Crawley: «Le parole dovettero cambiare il loro significato normale e assumere quello che ora veniva loro dato». Come hanno rivendicato molti classicisti, questa sembra la versione tucididea della neolingua orwelliana, un magnifico esempio di uno scrittore antico che percorre di oltre due millenni quella che noi riteniamo un’idea moderna. Ma le cose non stanno così. La verità sottolinea Hornblower sulla base di numerosi studi recenti, è che forse fu Crawley con la sua traduzione ad anticipare Orwell di quasi un secolo, ma di sicuro non fu Tucidide».
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Questa continua e serrata verifica trasforma la narrazione in una vera e propria inchiesta in cui il lettore si sente coinvolto e che innesca un progressivo desiderio di sapere e di svelare gli inganni che si celano fra le maglie di una cultura di cui troppo spesso siamo fruitori passivi. La Beard a volte conferma a volte smentisce le idee precostituite che si hanno sull’antichità, svelandone l’origine spesso fondata sull’accumularsi di una consuetudine o di un pregiudizio.
L’autrice prende per mano il lettore e lo porta a conoscere i personaggi storici per quello che erano realmente, o perlomeno spogliandoli dalla patina che i secoli hanno messo loro addosso: così s’incontra, per fare solo un esempio, una Cleopatra molto diversa dalla regina languida e decadente, che faceva il bagno nel latte d’asina, com’è stata descritta da William Shakespeare ed Elizabeth Taylor: per gli antichi romani, d’altronde, la tentazione di demonizzare la regina d’Egitto era stata irresistibile fin dall’inizio. Noi moderni abbiamo perciò l’illusione di saperne molto sul suo conto ma, liberata dalla veste del mito, ci resta in realtà ben poco per ricostruirne una biografia plausibile.
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Altrove invece – quando l’autrice usa, per rispondere alle domande sollevate, strumenti e opinioni forse troppo legati a una contemporaneità accademica di grande specificità scientifica – il libro rischia di diventare una lettura troppo specialistica. Il lettore comune troverà in questo lavoro una lunga sequela di nomi di studiosi e di saggi che potrebbero sì essere una fonte di ricchezza e un ottimo strumento per chi si occupa a fondo della materia, ma che a lui rischieranno di non comunicare nulla. Il respiro della narrazione, che coinvolge e affascina, viene forse troppo spesso interrotto dalla pedissequa necessità dell’autrice di recensire. Ci si chiede, leggendola, chi sia il vero destinatario dell’opera, giacché l’autrice si mantiene in un ambiguo equilibrio fra la letteratura specialistica e quella “di consumo”.
Punti di forza del libro sono certamente la brillante capacità dell’autrice di sopperire alle mancanze presenti nei lavori dei suoi colleghi, invitando costantemente a guardare i fatti da diverse prospettive, come nel capitolo Eschilo solo Eschilo, dove la Beard offre un interessante spaccato sul riutilizzo del teatro antico da parte dell’avanguardia americana di fine Novecento, partendo dalla lettura del celebre Dionisus in ’69 di Schechner. Dopo aver esposto il contenuto di contributi che leggono la reinterpretazione del teatro antico come un meccanismo attuato sempre in chiave sociale e avanguardista, si preoccupa di completare il panorama ricordandone anche utilizzi meno nobili, come la messa in scena dell’Oresteide alle Olimpiadi hitleriane del 1936, in cui l’opera veniva letta come la luminosa metafora del trionfo dell’arianesimo.
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Pagina dopo pagina, come un esploratore, l’autrice s’immerge nella classicità più selvaggia, più sfuggevole e indefinita, con meraviglia e spavento, con un’ancora però sempre ben salda nella contemporaneità, perché quello che la Beard vuole far capire al lettore è che il mondo antico non si comprende solo volgendo indietro lo sguardo, ma anche – e forse soprattutto – guardando avanti.
Per la prima foto, copyright: EVREN AYDIN.
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