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Ecco i mostri che l’Italia deve sconfiggere. Intervista a Carlo Calenda

Ecco i mostri che l’Italia deve sconfiggere. Intervista a Carlo CalendaI giganti, l’Idra di Lerna, il Leviatano, il Minotauro, Narciso, Crono. Sono questi I mostri (Feltrinelli) che Carlo Calenda affronta nel proprio saggio. Ogni mostro rappresenta una sfida che l’Italia può e deve vincere per tornare a essere grande. E deve farlo subito, non c’è più tempo da perdere. Viviamo in una democrazia fragile, anche a causa di cittadini che sembrano aver derogato all’esercizio di una cittadinanza attiva, a una politica che ha rinunciato a essere se stessa trasformandosi in slogan vuoti e facile ricerca di consenso e un sistema mediatico che ha rinunciato alla complessità inseguendo la semplificazione e la logica dello scontro a tutti i costi.

Di questo Carlo Calenda ha discusso nel suo ultimo libro e da queste basi siamo partiti per la nostra chiacchierata con l’Europarlamentare, fondatore di Azione.

 

Azione vuole riprendersi la rappresentanza politica. Dal punto di vista strategico questa scelta cosa comporta?

Comporta  la decisione da un lato di lavorare sul territorio, cercando di costruire con gli amministratori locali prima che con i parlamentari, perché conservano un contatto diretto con i cittadini e sono gli unici che sanno amministrare e quindi gestire; dall’altro lato ci permette di evitare ogni approccio ideologico, guardando alle cose che accadono, ai progetti e alle iniziative sempre senza fare ideologia. Questo vuol dire che se la maggioranza – noi siamo all’opposizione – fa una buona cosa, lo si riconosce senza problemi.

 

Il suo è un approccio comunicativo razionale, c’è poco spazio per l'ideologia pura e non ricorre a slogan né a emozioni facili. Ma quale crede che sia il ruolo dell’ideologia nella scena politica odierna?

Il punto è cosa s’intende per ideologia. Se intendiamo la costruzione di idee che diventano un pensiero complesso e articolato, ciò è una buona cosa. Il problema è che in Italia l’ideologia è una gabbia. Le faccio un esempio concreto per riuscire a comprenderci: è quella gabbia che consente agli elettori del PD di accettare che i decreti sicurezza, che avevano giudicato anti-democratici, rimangano in piedi con il loro governo. Lo accettano perché appunto è il loro governo, e questo viene prima di tutto, prima di qualunque considerazione sulla realtà. Direi che l’ideologia, da un certo punto di vista, è la causa della perdita di obiettività.

Ecco i mostri che l’Italia deve sconfiggere. Intervista a Carlo Calenda

Parlando dei social, su cui è molto attivo, nel libro confida che grazie a loro si è sentito meno solo quando era più isolato politicamente. Sul piano personale quell'isolamento cosa ha significato?

Ha significato per esempio la possibilità di capire che non stavo facendo politica nel posto giusto, cioè nel PD. Perché quando senti di non condividere non solo la linea politica – l’alleanza coi Cinque Stelle – ma anche il modo di fare politica, allora forse devi costruire qualcosa di diverso, Perché la politica si fa in una comunità. se di quella comunità non ti senti più parte – e parlo non degli elettori ma della classe dirigente –, allora ti senti solo e la solitudine non è il modo giusto per fare politica.

 

Quello della “competenza” è il frame a cui ricorre con maggiore frequenza. Perché sembra non essere più premiata dagli elettori?

Non è premiata da tantissimi anni, perché ormai siamo abituati alla politica come puro scontro ideologico. E questo nei decenni ha maturato dentro di noi un atteggiamento molto strano. Nella nostra vita privata siamo razionali, compiamo scelte razionali, e se ereditiamo un bar o un’edicola, assumiamo una persona che li sappia gestire. Ciò non avviene in politica. Anzi, ormai noi italiani abbiamo teorizzato che la politica non sia l’arte di gestione del governo, che invece consideriamo come qualcosa per tecnici. La politica per noi è diventata una sorta di conflitto, di simpatia, antipatia, affinità, posizionamenti politici che nulla hanno a che vedere con la capacità che le persone che seguiamo hanno o meno di gestire uno Stato. Si può essere di destra, ma prima di tutto bisogna cercare di declinare cosa vuol dire, ma molto spesso questo essere di destra è totalmente inconsapevole. Il secondo problema è che, solo perché ci si sente di destra, si sceglie un leader di destra che non si assumerebbe mai a gestire il proprio bar o la propria edicola, perché si riconosce che si tratta di una persona senza nessuna esperienza gestionale. Ovviamente parlo di Salvini, che nella sua vita professionale non ha mai gestito niente e che quando è stato eletto al Parlamento Europeo non si è presentato quasi mai, una persona che non ha mai lavorato. Sono caratteristiche che nella vita privata sarebbero dirimenti per non affidargli nulla di concreto, ma nella vita pubblica diventano assolutamente irrilevanti. Allora qual è il meccanismo che si mette in moto? Viene scelta una persona per le ragioni sbagliate, perché anche se ce rendiamo conto, decidiamo di ignorare il fatto che non abbia le capacità per gestire una macchina così gigantesca e complessa come lo Stato. Poi però quando lo Stato non funziona ci si arrabbia non capendo che è la conseguenza del fatto di aver scelto la persona sbagliata al posto sbagliato. Allora a questo punto si cambia leader e si guarda a qualcuno che faccia qualcosa di ancora più radicale. Ma, normalmente, chi fa qualcosa di ancor più radicale è meno attento alla gestione, ha meno capacità di gestione, è sempre più un demagogo. E allora ricomincia quel cerchio: lo si rimanda al governo, poi si è insoddisfatti del governo, e andiamo avanti così, come criceti sulla giostra.

 

Ha parole poco lusinghiere per il “politico eco”, che fa da cassa di risonanza dei problemi senza offrire mai soluzioni. Quali sono le ragioni che hanno portato all’affermazione di un tale modello di leader?

Si è affermato perché si è diffusa l’idea che la politica sostanzialmente non sia arte di governo ma capacità di ripetere bene le preoccupazioni dei cittadini, dargli voce ma non proporre risposte. E questo è proprio il cortocircuito che porta l’Italia allo sfascio e al declino da tanti anni. Si è più interessati a sapere se la Meloni ripete bene le nostre preoccupazioni, ma non a sapere se la Meloni risponde concretamente a quelle stesse preoccupazioni, e se le risposte che dà sono fattibili, praticabili. Questa parte non interessa più.

 

Lei lamenta il fatto che in Europa come in Italia spesso si scelga la strada della comunicazione rispetto a quella della sostanza. Non crede però che le due cose dovrebbero viaggiare di pari passo per riuscire a canalizzare il consenso?

Dipende dal tipo di comunicazione. A questo proposito è interessante quanto è accaduto sul Recovery fund. Si tratta senz’altro di una scelta positiva per l’Italia e senz’altro Conte ha giocato un ruolo positivo, anche se bisogna ammettere che il fondo è stato creato per volontà di Merkel e Macron. Le dico cosa avrei fatto io: avrei spiegato i dettagli dell’accordo che sono molto più complicati e in alcune parti anche difficili e rischiosi per l’Italia. E avrei chiaramente detto ai cittadini italiani che ci troviamo dinanzi a una soluzione che ha aspetti molto positivi ma che allo stesso tempo ci pone davanti a molte sfide difficilissime. Dobbiamo affrontarle. Per affrontarle bisogna cambiare mentalità, modo di gestire la cosa pubblica... La scelta di Conte e della maggioranza di governo è stata invece quella di festeggiare la vittoria, presentarsi come bravi a portare a casa molti miliardi di euro, senza neanche capire che ad esempio sul fondo perduto ci siamo sbagliati di cinquantacinque miliardi di euro, tra quello che hanno annunciato (ottanta miliardi) e quello che veramente arriverà al netto dei nuovi contributi che dovremo versare. Ecco, questa mancanza di gestione delle aspettative, questo distacco dalla realtà costruisce la premessa per una grande insoddisfazione. Mi raccontava stamattina un direttore di banca che ho incontrato per strada che, quando il Governo ha annunciato quattrocento miliardi per le imprese con garanzie immediatamente disponibili, la mattina dopo si è ritrovato invaso dalle persone mentre, nella realtà dei fatti, non c’era ancora niente di pronto e niente di chiaro. La stampa (che è un altro dei mostri di cui parlo nel libro) addirittura aveva parlato di una garanzia a trent’anni, per cui molti arrivavano in banca a chiedere una tale garanzia, che invece era solo a otto anni. Ecco, quando la politica diventa come una corrida ci troviamo in una situazione per cui non si dice mai la verità, non si conferisce mai quella gravitas, quella serietà, quella profondità che invece andrebbero seguite nella spiegazione della realtà.

Ecco i mostri che l’Italia deve sconfiggere. Intervista a Carlo Calenda

Non risparmia critiche ai media, che secondo lei non assolvono più alla loro delicata funzione nella democrazia, spesso semplificando troppo. Quale dovrebbe essere dunque la loro funzione? Come correggere questa distorsione?

Guardi, ieri ne ho avuto un esempio plastico. Sono stato ospite a una trasmissione (In onda, ndr) a cui ha preso parte anche Agnese Pini, la direttrice de «La Nazione». Il suo unico interesse relativamente al Recovery Fund e alla mia posizione in merito era spiegare quanto fossi vicino a Salvini. Questo nonostante mi fossi complimentato più volte con Conte e avessi riconosciuto apertamente l’importanza di questo strumento per l’Italia. Quando ho cominciato ad articolare il mio pensiero sul Recovery Fund, su cos’è e come funziona, ho scoperto che lei non lo conosceva. Allora le ho manifestato il mio disinteresse per questo gioco del tetris finalizzato solo a individuare dove si colloca Calenda rispetto a Salvini. Premesso che sto il più lontano possibile da lui, di questo non mi interessa nulla. Il lavoro di un giornalista dovrebbe essere quello di discutere con me della sostanza del Recovery Fund. Ma se neanche lo conosci, se non sai quali sono le sue caratteristiche, allora a che servi?

 

L’ultimo capitolo del libro è dedicato ai giovani, troppo spesso ignorati e dimenticati dalla politica. Lei stesso ricorda più volte nel libro come siamo il Paese più ignorante d’Europa, per non parlare della disoccupazione giovanile che è altissima. Ma perché siamo arrivati a questo punto? E come possiamo rimediare? Perché tendiamo a non concedere fiducia ai giovani?

Guardo a questo da una prospettiva un po’ diversa, perché credo non si tratti di non concedere fiducia. Anzi, c’è una retorica sui giovani e sul giovanilismo molto forte nel Paese. Tutti quanti, e questa è una cosa che mi fa spesso ridere, parlando dei nostri nonni diciamo che a ottantacinque anni sono ancora giovani. E tutti vogliamo essere giovani, non c’è nessuno più che è anziano e nessuno più che è vecchio. Siamo tutti giovani, a qualunque età. Questo giovanilismo ostentato è la premessa per fregare i giovani costantemente. Ad esempio non investiamo più sulla scuola, quando invece è il primo elemento che dà la possibilità di vincere nella vita. Perché questo accade? Faccio un esempio che secondo me è abbastanza efficace per capire come nella mentalità degli italiani sussistano due dimensioni separate: quella privata e quella politica. Se io le chiedessi cos’è la cosa più importante che insegna ai suoi figli, la sua risposta sarebbe molto probabilmente il fatto che devono studiare e istituirsi. Siccome i suoi figli sono la cosa più importante per lei, per la proprietà transitiva la cosa più importante per lei sarà la buona istruzione dei suoi figli. Quindi, data la situazione drammatica della scuola, la preoccupazione relativa all’istruzione dei suoi figli dovrebbe essere il primo punto da sollevare all’attenzione della classe dirigente. E invece nelle statistiche è quasi ultima. Sembrerebbe una contraddizione terrificante: nella tua vita personale, pensi che l’istruzione sia il fattore importante, ma non trasporti questo pensiero nella vita politica. Non succede per una ragione: non ti fidi più che lo Stato possa dare ai tuoi figli una buona istruzione. E quindi ti acconti di chiedergli semplicemente dei soldi, nella forma di un sussidio, un piccolo taglio fiscale, per poi pensarci personalmente. Poi però abbandoni questa preoccupazione e quei soldi finiscono in altri interessi. Questo fa sì che il 40% dei giovani diplomati possieda competenze fragili, il che è il doppio di quello che succede in Europa. È un esempio classico che fa capire quali sono i guasti determinati da questa separazione, dalla completa schizofrenia tra sfera privata e sfera pubblica.

 

Un punto su cui Azione insiste molto è l’incremento degli investimenti sulla cultura, l’istruzione e la ricerca. Al di là dell’aspetto economico, ci può indicare una proposta concreta di Azione per ognuno di questi ambiti che sono molto cari ai nostri lettori?

Sulla scuola la nostra proposta è abbastanza semplice: riteniamo che in tutta Italia debba essere instaurato il tempo lungo e che, nel pomeriggio, i ragazzi vadano seguiti, avviati alla lettura – nel Meridione oggi il 70% dei ragazzi non ha mai letto un libro –, allo sport e alle lingue straniere. Riteniamo che, in particolare, ci siano delle aree di crisi sociale complessa, nelle quali lo Stato dovrebbe intervenire direttamente e investire un ammontare di soldi per ragazzo molto significativo in modo da seguirne individualmente il percorso di crescita professionale e tirarlo fuori da quello che rischia di essere un gigantesco disastro umano. Per quanto riguarda invece il percorso relativo alla scuola superiore, abbiamo un problema: troppi ragazzi scelgono l’università, ma sono troppo pochi quelli che si laureano. Le due cose sono collegate. Bisogna adottare una strategia che ho cominciato a mettere in piedi al Ministero dello Sviluppo Economico, anche se non era il Ministero competente: vanno pesantemente rafforzati gli istituti tecnici superiori, quelli di terzo livello, che sono come una laurea breve. Noi diplomeremo meno di 20 mila persone, oggi sono 8 mila. La Germania è a quota 800 mila. Ognuno di questi trova immediatamente lavoro. Così come ognuno dei nostri 8 mila. Ecco, quel numero va portato rapidamente a 100 mila persone, perché libera l’università dalle persone che hanno voglia e bisogno di lavorare più rapidamente e costruisce un buon matching tra domanda e offerta di formazione, consentendo alle persone di entrare nel mondo del lavoro. L’altra nostra battaglia è sulle specializzazioni. In particolare oggi abbiamo un problema gigantesco rappresentato dai laureati in medicina che non hanno borse di specializzazione (ne mancano 9 mila) e persino nel bel mezzo dell’emergenza Covid non le abbiamo trovate. Ecco, queste sono le cose che si possono fare molto rapidamente per costruire un meccanismo di rilancio del Paese. Il problema – come lei vede – è che la scuola continua a essere l’ultima tra le priorità del governo, tant’è che è gestita da Azzolina e da Arcuri, due personaggi improponibili.   

 

Spesso e volentieri lei interviene per smascherare e smontare alcune fake news. A volte non le sembra di combattere contro i mulini a vento?

Sì, molto spesso. I mulini a vento peraltro li cito anche nel primo capitolo del libro. A volte mi sembra un lavoro faticosissimo che faccio sui social rispondendo agli utenti o spiegando nei video o in televisione. Eppure penso profondamente che il primo dovere di un politico sia spiegare cosa succede. Perché solo dopo aver spiegato cosa sta succedendo può illustrare cosa farebbe. Quel primo passaggio manca. E oggi in Italia manca perché sia i media sia i politici hanno smesso di fare questo lavoro. Ecco, allora la modalità di scelta delle varie opzioni di governo diventa una modalità totalmente delegata alla politica. Il cittadino non ne capisce più niente. E in questa non comprensione l’unica cosa che “soccorre” è la squadra, il tifo. Per cui la gente alla fine si chiede perché dovrebbe sforzarsi di capire una cosa che è complicata, e decide di affidarsi a ciò che pensa Salvini, Casalino o Conte. Ma questa è la morte della cittadinanza.

 

Un’ultima domanda: i mostri siamo noi. C'è una via di uscita?

Assolutamente sì, perché se i mostri fossero mandati – come nella mitologia greca – da qualche divinità invidiosa sarebbe difficilissimo sconfiggerli. Sarebbero mostri molto concreti, veri. La realtà è che i mostri li abbiamo creati tutti noi.  E avendoli creati tutti noi c’è un solo modo per sconfiggerli: la consapevolezza di averli creati, capire che li abbiamo creati noi e capire perché e come li abbiamo creati. Se facciamo questo, svaniscono istantaneamente. 

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