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“E verrà un altro inverno”, la provincia spietata di Massimo Carlotto

“E verrà un altro inverno”, la provincia spietata di Massimo CarlottoE verrà un altro inverno (Rizzoli, 2021) è il nuovo romanzo con cui Massimo Carlotto si aggiunge al prestigioso elenco di autori, in gran parte italiani ma non solo, che hanno pubblicato almeno un libro nella collana Nero Rizzoli, dedicata al genere noir.

Lasciate le vicende della grande criminalità narrate in molte sue opere precedenti, questa volta Carlotto racconta una storia ambientata nella provincia più profonda, in un paese senza nome al centro di una “valle” in cui gli abitanti sgobbano da mattina a sera nei capannoni disseminati sul territorio, sede di piccole e medie imprese che, sostituendosi al lavoro nei campi, hanno portato il benessere.

In questo luogo pensa di poter cominciare una nuova vita anche Bruno Manera, un ricco imprenditore cinquantenne, che dopo aver perso la prima moglie si è risposato con Federica Pesenti, trentacinquenne erede di una potente famiglia locale. La sua illusione, in realtà è duplice: il paese si rivela una comunità chiusa, ostile all’ingresso di elementi estranei, mentre la moglie, di cui è sinceramente e profondamente innamorato, non lo ricambia affatto e inizia ben presto a tradirlo.

Quando si ritrova a subire un paio di atti intimidatori, Manera scopre di essere solo contro tutti: c’è soltanto Manlio Giavazzi, il vigilante che passa le sue giornate a sorvegliare la banca nella piazza principale del paese, che sembra pronto a offrirgli il suo sostegno, ma sarà davvero così?

I colpi di scena si susseguono a ritmo incalzante da un capitolo all’altro, rivelando al lettore un ambiente provinciale in cui tutto sembra reggersi grazie all’immobilismo totale, dove la sincerità non esiste nemmeno tra parenti o tra coniugi e non c’è praticamente nessuno che non abbia qualche scheletro nel proprio armadio personale, ma dove spesso ci si fida del proprio peggior nemico.

Massimo Carlotto ha incontrato i blogger nel corso di un evento online per presentarci il romanzo e rispondere alle nostre domande.

 

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Questo romanzo si colloca oltre il genere: non c’è un investigatore canonico che indaghi su un classico omicidio, ma il male dilaga in un intero paese. Come mai ha scelto la provincia come scenario?

Come sempre, sono partito da un fatto realmente accaduto qualche anno fa. Andando a curiosare nei luoghi e parlando con le persone sono rimasto affascinato dal mondo di questi territori, diffusi un po’ in tutto il Nord Italia: zone di campagna dove sono presenti queste grandi famiglie, che un tempo comandavano attraverso la terra e oggi attraverso le fabbriche. Spesso le persone, quando arrivano a una dimensione di fallimento esistenziale, cercano una strada più veloce per arrivare a soddisfare i propri desideri: a volte è la doppia vita, a volte il crimine, a volte entrambe le cose.

Ho abbandonato per il momento il mio percorso di narrazione della criminalità organizzata, perché per me in questo momento storico non ha più niente d’interessante da raccontarci, e si rischia di scrivere sempre le stesse cose.

Penso che il noir sia in grado di esplorare nuovi territori e quindi mi sono spostato in questi luoghi di provincia.

“E verrà un altro inverno”, la provincia spietata di Massimo Carlotto

È vero che si segna su un taccuino i fatti di cronaca più interessanti che potrebbe poi raccontare?

Certo, ho più di un quaderno dove annoto le mie storie e poi faccio delle prove. Quando invito gli amici a cena, o meglio li invitavo prima della pandemia, raccontavo qualcuna di queste storie, a cui spesso reagivano dicendomi “questa te la sei inventata di sana pianta, non è possibile che sia così” perché la capacità delle persone di inventarsi delle doppie o triple vite è veramente straordinaria. Il desiderio di evadere dalla propria esistenza normale a volte è veramente pressante.

 

Nel romanzo si parla di persone che iniziano a delinquere dopo aver perso il lavoro, perché per i paesani è peggio vivere da pendolari, andando a cercare il lavoro fuori della valle, piuttosto che restare a casa in attesa di trovarne uno all’interno della comunità. Il condizionamento sociale appare fortissimo, ma è davvero così?

Uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere questo romanzo è che da troppo tempo in Italia si dice che la provincia è tutta uguale, ma secondo me non è così. Ogni zona ha delle peculiarità: io sostengo che il Nord si assomiglia sempre di più, e a parte le differenze linguistiche si sta uniformando. I rapporti all’interno delle comunità sono definiti da tempo immemorabile e si tramandano di famiglia in famiglia, e i moventi delle persone sono sempre gli stessi: potere, sesso e denaro.

La cosiddetta gente perbene sembra che arrivi al crimine molto più in fretta di un tempo e usi un certo tipo di cultura, che ha imparato soprattutto attraverso la televisione, per cercare di discolparsi o cavarsela.

 

Anche tra le persone che delinquono insieme però permangono le differenze: nei paesi ci sono i maggiorenti e poi c’è il resto della popolazione.

Il paese è un microcosmo che ha regole proprie e regole di accettazione dell’altro, che ho scelto di raccontare non attraverso il solito migrante che arriva da chissà dove, ma attraverso una persona che è a sua volta un vero maggiorente, ma non fa parte del giro locale e quindi non viene accettato.

 

Quali sono gli ingredienti necessari perché una storia meriti di essere raccontata?

Quando hanno un senso generale, quando un avvenimento che accade in un piccolo paese può raccontare comunque il paese nella sua globalità. Il crimine è una scusa per raccontare altro, il luogo e i personaggi e anche il tempo.

“E verrà un altro inverno”, la provincia spietata di Massimo Carlotto

La sua è una storia di esclusione: ci sono gruppi che escludono e persone che farebbero di tutto per essere inserite in questi gruppi. Avrebbero potuto essere questci possibilità o l’esclusione è sempre definitiva e totale?

No, i maggiorenti non includono mai: tendono a escludere per mantenere il potere, anche se alcuni provano a fare l’assalto al cielo. Il motore del crimine è questo: ci sono personaggi che si trovano di fronte a un fallimento esistenziale e non possono andare avanti. Cercano di ottenere qualcosa di più, ma in quel tipo di rapporti sociali la cosa è impossibile, per cui alla fine i maggiorenti sono sempre gli stessi. Le famiglie che erano prima latifondiste e poi sono diventate imprenditrici hanno fatto di tutto per mantenere il potere tanto a lungo, anche cose illecite.

 

In situazioni di questo tipo di solito compaiono persone che muovono le pedine per regolare i conti, ma di solito si tratta di personalità forti, in grado di controllare i compaesani.  Come mai qui lei ha scelto una persona come il vigilante, che non ci si aspetterebbe di trovare in questo ruolo?

Perché in molti territori come quello che descrivo non è mai esistita una forma di criminalità di spessore, per cui manca anche una figura criminale in grado di imporsi sugli altri.

 

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In tutti gli altri suoi romanzi c’è sempre una figura con una certa morale, per quanto discutibile, mentre qui sembra che non ci sia una persona minimamente positiva. È una constatazione del fatto che stiamo peggiorando in modo inesorabile oppure si riferisce solo a quel tipo di territorialità che descrive?

Mi riferisco più che altro alla mediocrità dilagante: questi personaggi sono tutti una banda di mediocri. Qualcuno si salva e potrebbe avere delle possibilità di riscattarsi, ma per il resto sopravvivono. Molte situazioni criminali non sono affatto gestite da geni o capi dotati di codici d’onore come in passato. è una tendenza generale della società italiana.

 

Considerando la complessità della storia, m’interesserebbe conoscere il suo metodo di scrittura: si fa degli schemi, delinea prima la trama, oppure scrive in maniera istintiva?

Arrivo al momento della scrittura con qualche quaderno pieno di appunti e una trama blindata, con i colpi di scena ben scadenzati. Partendo dai fatti reali ho iniziato a costruire i personaggi e poi a farli muovere all’interno della storia. Il mio amico Lucarelli dice sempre che parte da un’idea e poi costruisce la storia senza sapere come andrà a finire, io non amo le sorprese e ho bisogno di sapere tutto prima.

 

In questa vicenda ho letto un’ineluttabilità del dramma come in Eschilo. Nessuno parla con nessuno, eppure parlando fra loro i personaggi avrebbero eliminato molti guai. C’è questo senso del dramma?

Il fatto di non parlarsi tra le persone è un dramma sociale contemporaneo. Conosco chi è stato lasciato con un sms, del resto i social hanno contribuito molto in questo senso. Ormai ci si aggredisce sempre e non esiste più la ricomposizione dei conflitti attraverso il dialogo, se non tra chi ha rapporti molto stretti e veramente sani.

È una società delle immagini anziché delle parole. I personaggi sono incapaci di dialogare, persino le coppie sposate non comunicano tra loro.

 

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Per la prima foto, copyright: Gerrie van der Walt su Unsplash.

Per la terza foto, la fonte è qui.

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