E se la felicità fosse un male? “Un cuore debole” di Fëdor Dostoevskij
Puntata n. 111 della rubrica La bellezza nascosta
«Così, rapidamente, uscirono nella strada, uno più felice dell’altro. La via conduceva attraverso il quartiere di Pietroburgo che è di là del fiume verso Colomna. Arcadio Ivanovič, camminava con sveltezza ed energia, tanto che dal solo suo passo si poteva giudicare la sua gioia per la beatitudine del sempre più felice Vassia. Vassia seminava passetti minuti, ma senza perdere la sua dignità; anzi, al contrario, Arcadio Ivanovič, non lo aveva mai visto in una luce tanto favorevole. In quel momento lo stimava quasi di più, e un noto difetto fisco di Vassia, del quale il lettore non era ancora informato, (Vassia era un po’ storto), che destava sempre una grande compassione nel buon cuore di Arcadio Ivanovič, ora contribuiva anche di più alla tenerezza che provava per lui in quel momento il suo amico e che naturalmente era tanto meritata da Vassia.»
Molto spesso siamo portati a pensare che il nostro sconforto, le nostre nevrosi, i nostri stati ossessivi, siano dovuti a una vita che langue nell’infelicità; crediamo fermamente che ogni cosa possa cambiare, che i nostri stati emotivi possano sbocciare, che la nostra parte nervosa possa allentarsi e renderci finalmente il respiro che pensiamo di meritare.
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Ma siamo proprio sicuri che sia la felicità quello stato di magnifica assolutezza destinato a renderci la vita piena di agi? E se non fossimo fatti per essere felici? Se il nostro perenne stato di preoccupazione e paura e sconforto non fosse che un elemento naturale? Una terra, l’unica terra nella quale tutti i nostri demoni si scontrano e si trovano in perfetto e equilibrio con la parte lattea di noi stessi.
È da questo punto qui che parte e si sviluppa il romanzo giovanile di Fëdor Dostoevskij Un cuore debole pubblicato nuovamente in Italia da Alessandro Polidoro editore, a cura di Antonio Esposito.
Fëdor Dostoevskij, uno dei maggiori autori russi della storia, probabilmente il padre fondatore dell’esistenzialismo come materia letteraria, è nato a Mosca nel 1821 ed è deceduto a San Pietroburgo nel 1881.
Ci troviamo davanti a una trama semplice: Vassia e Arcadio sono due giovani che lavorano insieme e vivono sotto lo stesso tetto, Vassia si trova poi turbato e in piena crisi psichica a causa di un’eccessiva felicità e il suo amico Arcadio tenterà in tutti i modi di aiutarlo. Quindi la felicità come male assoluto, la felicità e non la tristezza, il bianco e non il nero.
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In questa storia di Fëdor Dostoevskij tutto si ribalta e le cose bramate dai più diventano come un virus, come una lama che con parsimonia taglia a fette ogni singola parte della mente di Vassia.
“«Oh via, tu vuoi che mi calmi, e io non sono mai stato così calmo e felice! Lo sai… Ascolta. Vorrei raccontarti tutto, ma temo sempre di rattristarti… tu sempre ti rattristi e mi sgridi e io ti temo… guarda come tremo ora… non so perché… vedi, ecco ciò che vorrei dire: mi sembra come se prima di ieri io non conoscessi me stesso, e anche altri ho imparato a conoscere soltanto ieri. Io, fratello, non sentivo, non apprezzavo; il cuore in me era insensibile… senti, come sarà accaduto questo, che non ho potuto fare del bene a nessuno al mondo, perché non ho potuto? Perfino il mio aspetto è sgradevole… eppure ognuno mi ha fatto del bene! Tu, per primo: come se non me ne avvedessi! Soltanto, tacevo»”
La scrittura del romanziere russo è già molto vicina a quella dei suoi ben più noti romanzi, e all’interno di queste pagine c’è già Dio, il Dio di Dostoevskij, la figura di qualcuno che ci osserva e che ride di noi e delle nostre disgrazie e che si tiene ben lontano dal desiderio di intervenire.
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C’è Dio nelle capitolazioni e nelle sventure e nella felicità smisurata che soffoca e cancella ogni prospettiva futura come una mano sugli occhi, come una mano stretta intorno alla gola.
«Non trovò nessuno: correva già da un’ora: tutti i medici, i cui indirizzi aveva saputo dai portieri, informandosi se nella casa abitava qualche medico, erano già usciti, chi per ragioni di servizio, chi per affari propri. Ce n’era uno che stava ricevendo i malati. A lungo interrogò il servitore che aveva annunciato Nefedevič per chiedere da chi fosse mandato, da chi e come, per quale ragione e perfino com’era d’aspetto questo visitatore così mattiniero e concluse che no, che aveva molto da fare, che non poteva andare con lui e che i malati di questo genere bisognava inviarli all’ospedale.»
Ogni cosa può assumere forme differenti, ogni emozione può essere utile, salvifica o un abisso.
Per la prima foto, copyright: Debby Hudson su Unsplash.
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