E se la bellezza fosse un handicap? Intervista a Eka Kurniawan
La bellezza è una ferita è il titolo in italiano del romanzo di Eka Kurniawan, edito da Marsilio, nella traduzione di Norman Gobetti. Lo scrittore indonesiano mette in scena un’opera eccezionale dove la leggenda si alterna alla realtà in una danza che cattura il lettore sin dalle prime pagine.
C’è qualcosa di misterioso nella resurrezione di una certa prostituta, famosa in tutta Halimunda, nel cuore dell’isola di Giava. Avviene dopo ventun anni di regolare morte, con corpo avvolto nel sudario e cuore privo di pulsazioni. Accade perché, a Halimunda, tutto può succedere. O, anzi, tutto è successo, perché si è catapultati, inizialmente, nel periodo coloniale dell’Indonesia, quindi appena precedente alla seconda guerra mondiale, per poi raggiungere gli anni Settanta e i grandi cambiamenti storico-politici che sopraggiungono mentre la vita di tre generazioni accade, si intreccia e si dispiega sotto gli occhi del lettore.
In visita in Italia, Eka Kurniawan ha raccontato alcuni retroscena che lo hanno condotto a scrivere il romanzo La bellezza è una ferita.
Partiamo subito dal titolo: perché questa scelta?
Il titolo è arrivato dopo aver scritto il libro, un libro che volevo contenesse connotati storici. Mentre lo stavo scrivendo non avevo la minima idea di come intitolarlo. L’ho capito un giorno mentre leggevo un articolo sul giornale riguardo a una certa attrice molto bella. La donna raccontava che la bellezza, in verità, non è sempre piacevole. A volte, camminando per la strada ti ritrovi con lo sguardo degli altri addosso, anche in modo insistente, come se ti portassi in giro un corpo colmo di ferite. Ecco, leggendo questo dettaglio, sono rimasto colpito perché, nella sua essenza, è di questo che parla il mio romanzo.
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Dalla lettura ho colto una sensazione: gli uomini protagonisti della storia sono figure fisicamente forti, capaci di conquistare il mondo, se necessario, ma al contempo fragili e incapaci di mostrare i propri sentimenti. Davanti alle donne, rimangono senza parole e in preda a deliranti pensieri e frustrazioni. Le donne dal conto loro appaiono deboli e violentabili, eppure, in ultima analisi, è solo un’apparenza. Come mai ha scelto questo tipo di personaggi?
La storia – quella con la S maiuscola – parla soprattutto di uomini. Gli eroi che salvano le città erano uomini, forti, potenti e indistruttibili. La domanda che mi è sorta consultando i libri storici è questa: e le donne, in tutto questo tempo, dov’erano? La conclusione alla quale sono giunto è che queste donne erano nascoste dietro alle figure degli uomini eroici. E dal pensiero mi è nata una domanda: perché abbiamo operato scelte di questo tipo? È così che sono giunto alla decisione di dare spazio a questo tipo di personaggi, anzi, alle donne. Nella sua essenza, il romanzo parla principalmente di donne.
Oltre agli uomini forti e conquistatori grazie alla forza fisica, c’è un personaggio che si scosta completamente. Parlo del compagno Kliwon. La madre dell’allora giovane Kliwon ha paura che il figlio possa prendere le orme del padre, un comunista, e quindi gli scruta il volto assiduamente in cerca di segni di tristezza e cupezza. La tristezza è una conditio sine quanon per rivoluzionare le cose oppure il dettaglio è un’esigenza narrativa?
I libri solitamente parlano di eroi fatti in questo modo. E se ci pensiamo, i racconti e le faccende sulle rivoluzioni, sui loro protagonisti, sono tristi. Pensa alla storia di Cristo: è terribilmente triste. Quindi, più che un’esigenza narrativa, credo che per dar vita a una rivoluzione occorra avere qualcosa di cupo dentro di sé. Per quanto riguarda lo sguardo del compagno Kliwon, quindi di quel tipo di rivoluzionario, somiglia a quello di una madre che, nel suo piccolo, vorrebbe che il mondo fosse il migliore dei posti.
L’ordine può essere riportato solo attraverso la rivoluzione. Il pensiero va al compagno Salim. Lei lo condivide?
È vero purché il concetto sia contestualizzato. Ovvero, allora, negli anni Sessanta dell’Indonesia che descrivo nel romanzo, l’ordine poteva essere riportato solo attraverso la rivoluzione. Oggi sarebbe infruttuoso un motto del genere, spinto dalle pulsazioni primordiali e dalle frustrazioni di un’oppressione straniera. I panorami socio-politici attuali sono completamente diversi; è un’altra era. La rivoluzione oggi può partire solo dal cambiare il modo in cui pensiamo le cose, quando vi sono problemi, per raggiungere nuove situazioni che comportino soluzioni ottimale.
La paura è un elemento molto presente nel romanzo che si presenta sotto molteplici forme…
La paura è strettamente legata al controllo. Nella storia che racconto tutti gli uomini, nonostante gli atteggiamenti spesso violenti, nascondono paure. Lottano gli uni contro gli altri senza mai sciogliere questa paura che molte volte si traduce in una paura verso una determinata figura: quella della donna. In questo senso, pensiamo a certe società che la manifestano in modo emblematico proibendo l’educazione delle donne.
Il romanzo, inoltre, nasce come una ghost story, per cui tratta inevitabilmente delle paure più profonde che caratterizzano gli esseri umani sin da sempre.
Un altro elemento di cui il romanzo è pregno è la questione della leggenda. La leggenda creatrice di realtà. Un’attività, questa, che contraddistingue gli esseri umani sin dagli albori della civiltà. Allora ci raccontavamo miti su eroi e déi. Abbiamo smesso di creare miti oppure questi nascono ancora?
Ne parlavo con un amico nei giorni scorsi e ci chiedevamo appunto se l’uomo moderno crei ancora leggende e miti. Sono cambiati gli ideali, sicuramente, da quel lontano tempo in cui gli eroi indistruttibili e perfetti fungevano da modello ultimo nella vita. E penso quindi ai nuovi “eroi” che producono nuove “leggende”, e mi viene in mente come esempio il Medio Oriente e la figura di Bin Laden.
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In conclusione, vorrei chiederle una curiosità riguardo al modo di scrivere, più precisamente se ha dei rituali particolari che compie prima di scrivere. E qual è il libro o scrittore che la ispira?
Quello che faccio prima di scrivere è dormire, o dormicchiare, se vogliamo. Lascio la mente vagare tra le idee, i pensieri e le domande senza porre freni. Poi, un altro elemento indispensabile per scrivere, è la musica. Questa mi dà il ritmo giusto, la fluidità di cui ho bisogno per raccontare. Trovo che la musica contenga un senso drammatico dentro di sé.
Per il libro, ce ne sono due che reputo indispensabili: Don Chisciotte e Moby Dick. Trovo entrambi colmi di mille interpretazioni. Un libro che invece mi ha segnato in qualità di scrittore è Fame di Knut Kumsun.
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Per la prima foto, copyright: Ralph Evans.
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