E se i russi fossero tutti matti?
Il vero problema, quando si tenta di parlare della Russia, non consiste tanto nello scegliere cosa raccontare, quanto piuttosto nel capire in che modo riuscirci. Come fare sì che una vicenda quotidiana, la trama di un grande classico, la tradizione legata a una festività o la frase pronunciata da un celebre intellettuale non suonino assurde nel momento stesso in cui le si riporta? E, ammesso e non concesso che si trovi una strada percorribile e chiara anche agli occhi di chi non l’aveva mai vista prima, da dove cominciare a raccontare? In che maniera riordinare il materiale così vasto di un popolo che da secoli si muove in tutte le direzioni geografiche e metaforiche possibili?
Con il suo I russi sono matti (Utet, 2019), Paolo Nori ha capito con grande onestà intellettuale che la risposta a queste domande non consisteva in una forzatura della ragione. Non si può sistematizzare a tutti i costi ciò che di per sé appare sconnesso, o meglio, coesistente in un piano orizzontale parallelo, anziché in una successione verticale dominata dai principi di causa ed effetto. Né si può spiegare a chi non li conosce chi sono i russi con l’arte della retorica e della narrazione più raffinate. Per riuscirci davvero e non perdere l’attenzione di chi legge dopo le prime dieci righe, è necessario partire dalla fine e ammetterlo: i russi sono matti, o per lo meno lo sembrano. I russi sono indecifrabili, se li si guarda da lontano. I russi sono complessi, finché non si intuisce il meccanismo di funzionamento della loro storia geopolitica, della loro evoluzione folklorica e culturale, religiosa e sociale. E, se si vuole spiegare un simile meccanismo, serve avere una certa quantità di tempo per condividerne i punti cardine e una certa dose di fiducia da ricevere preventivamente.
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Nel caso in cui si volesse accordare questa fiducia all’ultima prova saggistica dello scrittore e traduttore emiliano, già nell’introduzione frammentaria, episodica e variegata si intuirebbe l’idea di un popolo «ridicolo e stellare al tempo stesso», con una letteratura che nell’Ottocento pietroburghese ha rischiato di fondersi con la realtà e che sa fare male più di Fitzgerald, più di Sciascia, più di Verne. Almeno, a detta dell’autore. Per capire fino a che punto abbia ragione si spulcia allora la prima sezione vera e propria dell’opera, Il potere, e ci si accorge che ancora una volta gli sprazzi di conoscenza della letteratura russa ai quali si ha accesso sono disconnessi tra loro, ma comprensibili, scorrevoli e piani dal punto di vista linguistico, ma vertiginosamente profondi in termini di significati.
Il sottotitolo della pubblicazione di Nori è Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, eppure per un po’ ci si dimentica che dovrebbe trattarsi di un manuale e si ha l’impressione che si tratti quasi una confessione diaristica, una sorta di flusso di coscienza a scopi psicanalitici, alla fine del quale si sarà inteso molto della follia umana e molto poco di chi ha scritto cosa in quale anno del XIX secolo. Soltanto quando ci si trova a lettura inoltrata e dal macrotema del potere si passa a L’amore,si pensa (o forse si spera soltanto, con vaghezza) di avere ritrovato il senso dell’orientamento. Allora ci si imbatte nella storia di Anna Karenina e si ha come l’intuizione fugace di avere sbagliato: il senso dell’orientamento non è ricomparso cammin facendo, è stato ricreato da zero da e per i russi.
A confermarlo subito dopo è l’ultima sezione del volume, Il byt, dedicata cioè alla vita quotidiana dei russi e alla sua descrizione nelle opere letterarie. «E una cosa stranissima, mi sembra, è che gli scrittori russi, raccontandoci la loro vita quotidiana, ci raccontano la nostra, di vita quotidiana», scrive Nori. Lo dichiara nel momento in cui sa di poterselo permettere, perché la distanza tra chi legge e chi ha vissuto a Mosca nei primi anni del Novecento si sta dissolvendo. Ha preparato il terreno per oltre i due terzi del suo resoconto e ora ha la convinzione ben riposta di avere portato con sé il suo pubblico al di là della distanza che separa la Russia del resto del mondo: oltre quel vetro sottile c’è un popolo che ha smesso di essere matto e che finalmente commuove, stupisce, rallegra, ispira – e respira.
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È il popolo di Puškin e di Gogol’, che non a caso appaiono solo in appendice perché troppo imponenti per essere trattati prima della conclusione del libro, è il popolo a cui si ispira l’espressione «finale alla russa» in opposizione all’happy ending hollywoodiano, lo stesso che dopo un intero libro sulla sua infermità mentale ci risulta straordinariamente simpatico nel senso più etimologico della parola – dal greco sympáskhō, «provare emozioni insieme a» –, perché i russi possono sembrare contraddittori e buffi, estremi e contorti, ma allo stesso tempo sono autentici in un modo tutto loro, che non può non coinvolgere a livello viscerale chi entra in contatto con loro, foss’anche solo tra le pagine di un singolare manuale letterario.
Per la prima foto, copyright: Jaunt and Joy su Unsplash.
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