E se fossimo tutti fratelli feriti? La straordinaria storia di Fernand Iveton
Dei nostri fratelli feriti di Joseph Andras (Fazi editore, traduzione di Antonella Conti) racconta la vita e la personalità di Fernand Iveton, ghigliottinato l’11 febbraio del ’57 per aver messo una bomba – recuperata dalla polizia e tempestivamente disinnescata – nella fabbrica in cui lavorava, unica vittima europea della “ragion di stato” francese durante la guerra per l’indipendenza dell’Algeria. Si tratta di una ricostruzione romanzata ma non troppo, in quanto basata su un minuzioso lavoro di indagine per il quale l’autore ringrazia in calce lo storico Jean Luc Einaudi, che ci restituisce l’atmosfera cupa di quegli anni, caratterizzati da brutalità di ogni tipo.
Iveton è un operaio comunista, fervente sostenitore dell’indipendenza algerina, le cui intenzioni non sono di uccidere o ferire qualcuno («non si risponde al sangue col sangue»), come dimostrato dall’orario scelto per fare esplodere l’ordigno, e cioè alle 19 e 30 di sera, quando la fabbrica è deserta, ma solo di compiere un “gesto simbolico” volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di emancipare l’Algeria dal giogo coloniale francese e dalla barbarie praticata ai danni della popolazione araba.
Poco dopo aver collocato la bomba, in seguito alla denuncia del suo caporeparto Fernand viene arrestato dalle forze dell’ordine e, malgrado l’esplicito ordine del Capo generale della polizia di Algeri di «non torcergli un capello», sottoposto ad atroci sevizie fisiche e psichiche. Flashback del passato ne illuminano la personalità e i momenti fondamentali della vita, mostrandolo come un mite ottimista la cui felicità «procede di pari passo con l’ordinario, senza pretendere di andare oltre le sue possibilità».
Ma Iveton è anche un idealista che sente su di sé il peso delle sofferenze degli arabi algerini che da anni gli raccontano «storie da incubo», dai raccolti saccheggiati alla gente bruciata viva con la benzina o nei forni, con l’esercito che spara su qualsiasi cosa si muova per reprimere la protesta.
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Un umile operaio che, malgrado gli scarsi studi, comprende che «la morte è una cosa ma l’umiliazione» quotidianamente inflitta alla popolazione musulmana è anche peggiore della violenza «perché il sangue si secca più rapidamente della vergogna».
Un sognatore che non avrebbe «mai accettato, nemmeno sotto costrizione, di compiere un atto che potesse provocare la morte di qualcuno» e che coltiva da sempre un unico sogno, che l’Algeria si renda indipendente e capace di essere accogliente verso «ognuno dei suoi figli, da qualunque parte venga».
Dei nostri fratelli feriti è anche una toccante storia d’amore, quella tra Fernand e la moglie Hélène, che viene raccontata sin dal suo nascere («quel qualcosa che non possiede parole»), in parallelo rispetto alla vicenda principale, con una grazia pudica intrisa di poesia che fa da contrappunto al crudissimo realismo con cui sono descritte le torture inferte a Fernand.
Pur essendo una donna semplice dedita da sempre a umili lavori Hélène svela da subito la sua indole fiera e tenace, rispondendo alla polizia, che vuole carpirle informazioni sull’attività politica del suo Fernand, di non saperne nulla perché lei lo ama «per l’uomo che è», e reagendo con indignata fierezza sia al tentativo della polizia di farle apparire il marito come un terrorista senza scrupoli e fedifrago sia al licenziamento in tronco da parte del suo datore di lavoro. Ma a indignarla più di tutto, facendo emergere l’intensità della sua coscienza di classe, è la lettura di un trafiletto di giornale che dipinge il suo Fernand come malvestito e sporco: «ed ecco che adesso salta fuori un giornalista qualunque e si permette di umiliarlo così, senza ritegno, di farlo passare per un trasandato, per un sudicione, forse pensa di potersi burlare così degli operai» e la spinge a «pretendere» che il pacco contenente i vestiti che vuole far indossare al marito durante il processo gli venga a ogni costo consegnato.
La dignità combattiva di Hélène si salda con quella diversamente combattiva del marito e fa sì che Dei nostri fratelli feriti possa essere letto anche comeuna parabola sulla dignità degli umili, una dignità che non si piega davanti ai potenti perché è consapevolezza profonda di sé e del proprio valore, per nulla dipendente dalle condizioni economiche o sociali.
In parallelo rispetto allo snodarsi della vicenda politica e storica viene rievocata da Andras anche l’infanzia di Iveton, vissuta in un quartiere povero ma in un clima di serenità e fratellanza, «tra pochi europei e molti arabi» che contrasta in modo stridente con quello «ebbro di risentimento e collera» che accompagna il processo, con l’opinione pubblica francese e degli europei algerini sempre più favorevole a una giustizia/vendetta, lo scarso tempo concesso ai legali di Fernand per organizzarne la difesa e la totale mancanza d’imparzialità della relazione del medico nominato dal Tribunale per accertare se sia realmente stato torturato dalla polizia. Ma neppure dentro una cornice così fosca mancano spiragli di luce: l’umanità e l’atteggiamento profondamente rispettoso del Direttore del carcere, il rigore morale del Capo generale della polizia di Algeri, la gentilezza d’animo dell’avvocato d’ufficio di Fernand mostrano come quella descritta da Andras non sia un’umanità in bianco e nero ma sfaccettata e autentica. Colpisce particolarmente, nella sua “normalità” priva di barbarie, la vita quotidiana in carcere, caratterizzata dal clima di rispetto reciproco e amicizia che s’instaura tra i compagni di cella, oltre che dallo scambio di lettere con l’adorata moglie e il figliastro, piene d’amore e di esortazioni ad avere fiducia nel futuro. L’arrivo in prigione degli avvocati che portano brandelli della vita esterna anziché costituire un momento di sollievo è spesso fonte di ulteriori ansie per Iveton: il partito comunista in cui ha sempre militato si rifiuta di prendere ufficialmente posizione a suo favore perché diviso in merito al giudizio sulla sua azione, la procedura di grazia appare proceduralmente complessa e dagli esiti incerti e tra gli europei cresce la voglia di vendetta, anche perché «guerra e legalità non sono mai andati molto d’accordo».
Ad apparire positivo oltre ogni aspettativa è ancora una volta Fernand. Colpiscono il lettore l’umiltà e la paziente accettazione – sebbene intrisa di paure perché Iveton non è un eroe né mai si atteggia a tale o mostra di aspirare a diventarlo – con cui va incontro al suo atroce destino, senza mai trasformare lo sdegno per le ingiustizie personali e sociali in rancore e odio. Iveton non mostra odio neppure quando sta per essere ghigliottinato, né verso il potere che ha fatto di lui una vittima sacrificale per soddisfare la sete di vendetta degli europei vittime degli attentati terroristici né verso il boia che grazie a lui, alla casuale scoperta della loro omonimia, registra stupito l’appartenenza a una “comune umanità”. Un destino che Fernand affronta con la dignità, la mitezza e l’umiltà di sempre. Un’umiltà e una mansuetudineche lo spingono, anziché a gridare per imporsi all’attenzione del mondo erestare impresso nella memoria collettiva come martire della guerra d’indipendenza algerina, a sussurrare «Sto per morire, ma l’Algeria sarà indipendente».
La difficoltà di conciliare il necessario rispetto delle leggi e il sacrosanto diritto all’autodeterminazione dei popoli, lo iato tra le Costituzioni degli stati democratici che vietano ogni forma di tortura e la realtà della sua sistematica pratica nel silenzio spesso assordante – quando non connivenza – delle istituzioni deputate a controllarne il rispetto, la tentazione da parte del potere di sacrificare chi è diventato “ingombrante”, nascondendo le nefandezze dei propri servitori infedeli allo scopo di proteggere se stesso, per non parlare del terrorismo, con la sua sanguinaria spirale d’odio che si autoalimenta minando alla radice le basi stesse della convivenza, sono tematiche quanto mai di attualità, ma (è lecito supporre che) a nessuno potrebbe mai venire in mente di porre sullo stesso piano i folli sanguinari tagliatori di teste dell’Isis e Fernand Iveton, che la testa se la fa tagliare in nome di un sogno in cui di sanguinario non c’è niente.
Dei nostri fratelli feriti ci mostra quanto èinfelice quel mondo in cui, per combattere le ingiustizie, i miti si ritrovano a usare le armi dei terroristi e la luce della ragione, del diritto di tutti i popoli del mondo a vedersi riconosciute libertà, uguaglianza e fraternità, cede il posto all’oscurantismo del rifiuto, della repressione e della vendetta.
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E suggerisce che esiste forse un solo modo per evitare che le ferite inflitte agli uomini si trasformino in piaghe mortali anche per gli Stati che ne sono responsabili e le loro società: non imboccare la comoda via dell’oblio auto ed etero assolutorio («Si dimentica, è ovvio. Non per questo la società ne risulta meno ferita» ammonisce Camus nel suo libello Réflexions sur la guillotine citato in calce al romanzo e pubblicato nell’anno della morte di Iveton. Che la Francia, patria della grande Rivoluzione, abbia sia pur tardivamente scelto di non dimenticare, facendo i conti col proprio passato e omaggiando col prestigioso premio Goncourt Andras e la sua riabilitazione di Iveton è perciò giusto e importante) né quella capace d’innescare pericolose reazioni a catena della vendetta, ma la strada che ha permesso a Mandela di ricomporre in unità il suo popolo ferito a morte dall’apartheid e al Sudafrica di crescere in pace: un perdono responsabile che permetta a tutti di imparare a riconoscersi vicendevolmente come “fratelli feriti” dalle ingiustizie, qualunque ne sia la provenienza, e capaci di lavorare insieme per cercare di superarle.
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