“E poi saremo salvi”, il percorso d’integrazione in Italia della piccola Aida
Con E poi saremo salvi (Mondadori, 2021) approda al romanzo Alessandra Carati, autrice di La via perfetta (Einaudi, 2019), resoconto della drammatica spedizione al Nanga Parbat che al principio del 2019 costò la vita agli alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard.
La storia è quella di Aida, una bambina bosniaca costretta a fuggire dal villaggio dove è nata mentre la Bosnia è dilaniata dalla guerra civile, negli anni Novanta del secolo scorso: un paese da sempre multietnico si era improvvisamente scoperto dilaniato da fazioni che avevano perso il senso e il valore della convivenza.
Insieme alla madre, Aida compie un avventuroso viaggio verso l’Italia, per raggiungere il padre che ha deciso di rifugiarsi a Milano. Qui la famiglia, a cui si aggiunge presto Ibro, un secondo bambino, affronta il difficile percorso d’inserimento in una realtà completamente diversa: occorre trovare una casa e un lavoro, imparare una nuova lingua e adattarsi a un mondo che ha ben poco in comune con il villaggio dove sono rimasti a vivere i nonni. Per Aida, si tratta anche di andare a scuola e studiare in una lingua diversa da quella materna, ma nonostante le tante difficoltà, sarà lei l’unica componente della famiglia che si scoprirà capace di costruirsi una nuova vita senza lasciarsi condizionare dalla nostalgia.
Abbiamo fatto qualche domanda ad Alessandra Carati su questo romanzo, che tocca temi purtroppo ancora molto attuali.
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Cosa l’ha spinta a raccontare proprio la storia di una profuga bosniaca?
Era il 2008, un incontro ha acceso la mia curiosità per un gruppo di Bosniaci. Vivevano a Milano, dopo essere scappati dal loro paese d’origine per mettersi in salvo da una feroce operazione di pulizia etnica.
La forza delle loro storie mi ha colpito da subito e da subito avrei voluto farne un romanzo. Allora non avevo una tenuta emotiva e professionale che potesse sorreggermi nella scrittura. Ho aspettato, ho lavorato su altri progetti, con quell’intuizione di libro sempre in visione periferica.
Nel 2016 l’ho preso in mano. Gli anni a seguire sono stati ricerca sul campo, documentazione, messa a fuoco di una lingua: raccontavo l’esperienza di una famiglia di profughi che tenta di ricostruirsi una casa in Italia, mentre assiste alla distruzione della propria. C’era da comprendere e sentire l’energia della grande Storia, e c’era da sprofondare nella vita concreta degli esuli, persone destinate a un trasloco coatto, a cui non è concesso tornare indietro.
Si è ispirata a una o più storie vere, ha contattato i profughi che vivono in Italia?
Il romanzo così come si presenta al lettore è una mescolanza di invenzione e fatti realmente accaduti, che ormai fatico a distinguere. Il processo di scrittura è durato più di sei anni, a un certo punto ogni cosa è diventata autentica: ho smesso di interrogarmi sulla verosimiglianza degli eventi perché la storia si dava come viva. È nel patto di credenza con il lettore che si definisce lo statuto del racconto (fiction/non fiction); nel lavoro, per me, non c’è una differenza sostanziale né di metodo. Certo, in un caso c’è un dovere di attendibilità e conformità al dato di realtà, poi però la scrittura si nutre sempre della sensibilità e della capacità immaginifica dell’autore.
Per questo libro ho seguito un metodo che ho affinato negli anni, una frequentazione lunga e assidua del materiale: ho passato diverso tempo con famiglie di profughi, in Italia e in Bosnia; ho ascoltato le loro storie, quando avevano voglia di raccontarmele; ho visitato le case che oggi abitano, ho mangiato con loro; ho viaggiato a ritroso fino ai paesi d’origine. E poi ho lasciato che tutto questo sedimentasse, s’ingigantisse nel ricordo, si mescolasse alla ricerca sui testi, allo studio, alla necessità di capire un pezzo oscuro di storia recente. Allora ho scritto, poi sono tornata a loro, e ho scritto di nuovo. Così, per anni, in un andirivieni che a un certo punto è diventato anche la mia vita.
Le guerre balcaniche rappresentano momenti particolari della storia d’Europa, e ancora oggi la loro comprensione sembra sfuggire. Come mai ha deciso di usarle come punto di partenza?
La questione balcanica non è stata il punto di partenza. All’inizio ero completamente immersa nelle conseguenze che lo smembramento della Bosnia provocava all’interno delle famiglie e sui bambini. Quando ho allargato lo sguardo al grande scenario europeo, mi sono meravigliata di come le vicende private risuonassero in un quadro più ampio, che ne faceva esplodere il senso.
La Jugoslavia era un microcosmo euro-mediterraneo, perché storicamente apparteneva all’area mitteleuropea, danubiana, balcanica, mediterranea. In questo pezzo di Europa, che non era un’altra Europa rispetto alla nostra, ma una cerniera cruciale tra Occidente e Oriente, esisteva una mescolanza di etnie e religioni. E come in un gioco di scatole cinesi, la Bosnia Erzegovina era una piccola Jugoslavia, un microcosmo etnico a sua volta, in cui c’era qualcosa di più della tolleranza e della coabitazione, c’erano scambi, convivialità, matrimoni; un tessuto culturale comune a persone di religioni ed etnie diverse.
La guerra scoppia proprio mentre l’Europa si sta formando. Del 1992 è la firma sul trattato di Maastricht: si aprono le frontiere, si permette a ogni cittadino europeo di vivere e lavorare negli altri stati. L’obiettivo è una comunità politica che superi il potere assoluto delle singole nazioni, fondate sul presupposto di una lingua, una religione, una cultura.
Ecco, la Bosnia era già questo, era la prefigurazione incarnata dell’Europa, il suo embrione. Non ci siamo accorti che lo smembramento della Bosnia avrebbe messo a rischio il progetto europeo, decomponendolo a est e a ovest. Basti pensare oggi alla diseuropeizzazione della Turchia, e alla Brexit.
In E poi saremo salvi la Jugoslavia si disintegra; la famiglia di Aida si disperde; suo fratello va in frantumi. Questo movimento centrifugo, di separazione si compie a più livelli: nell’intimità dei singoli, nelle relazioni affettive, nella Storia.
Aida rappresenta un’intera generazione di giovani strappati alle loro terre d’origine ancora bambini e cresciuti in Italia, a volte tagliando ogni legame con i paesi di provenienza, a volte mantenendo invece dei rapporti con essi, come nel caso di questa ragazza e della sua famiglia. È forse questa incertezza tra due mondi a rendere più difficile la crescita di Aida?
Aida fatica a crescere perché arriva da un paese distrutto.
Negli ultimi anni, in Svezia e in Australia sta succedendo che bambini e bambine scappati da zone di guerra si addormentino: all’improvviso smettono di parlare, di mangiare, scivolano in uno stato letargico e poi catatonico. Dormono per mesi, per anni.
Sono stati testimoni di violenze, hanno lasciato le loro case per andare ad abitare luoghi sconosciuti, hanno respirato l’angoscia e il terrore dei genitori. E nei nuovi paesi l’ansia delle famiglie non finisce, per la fatica del vivere, di ottenere permessi e diritto di cittadinanza, per il dolore di assistere da lontano alla distruzione della propria casa. Allora i bambini si ritirano dal mondo, in un sonno che è riparo, guscio, estrema difesa.
Aida non cade addormentata, trova rifugio nel distacco dal proprio corpo, dentro una solitudine siderale in cui ogni emozione è raffreddata e disinnescata. L’incontro con Emilia, la volontaria che la accoglie e diventa per lei una seconda madre, è solo una conseguenza di questo processo, un’occasione che le permette di portarlo alle estreme conseguenze.
Aida si risveglierà solo grazie al calore di suo fratello Ibro. Quello che salverà l’una, brucerà l’altro.
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Il suo libro precedente, La via perfetta, è la cronaca della spedizione sul Nanga Parbat che è costata la vita a Daniele Nardi, e insieme un omaggio alla sua vita da alpinista, mentre E poi saremo salvi è la storia di personaggi immaginari. Quale dei due libri l’ha impegnata di più dal punto di vista della scrittura?
Ogni libro mi arriva addosso tutto insieme. Quando mi immergo nelle esperienze che il progetto richiede lo faccio completamente, che sia salire al campo base di una montagna di 8000 metri d’inverno, in Pakistan, oppure attraversare in auto tutta la ex Jugoslavia, fino alla Drina, e poi giù a sud, fino a Srebrenica. Durante la scrittura c’è la distanza per osservare e riattraversare quello che ho vissuto, così da lasciare che emerga una forma efficace e affilata, capace di portare il lettore dentro l’esperienza dei personaggi.
Nel caso de La via perfetta la vita è diventata più forte di tutto e ha rischiato di travolgere e polverizzare il libro. Eppure Daniele era stato previdente, aveva fissato un ancoraggio – l’email con cui mi chiedeva di portare a termine il lavoro – che disegnava una direzione chiara e mi sosteneva.
E poi saremo salvi mi ha dato il tempo di ascoltare, di riflettere, di contemplare, di lasciare che il dolore dei personaggi arrivasse a toccarmi in profondità, senza sopraffarmi.
È un libro paradossalmente più dolce, meno strappato. È un libro sulla dolenza e sulla solitudine.
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Per la prima foto, copyright: Eric Ward su Unsplash.
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