È nel buio che si impara a guardare. “La luce che resta” di Evita Greco
DopoIl rumore delle cose che iniziano (Rizzoli), Evita Greco torna in libreria con La luce che resta (Garzanti). Un romanzo toccante nel quale s’intrecciano le storie dei personaggi che solo in apparenza sembrano essere slegate tra loro, ma che sono accomunate da un medesimo filo conduttore: l’amore verso qualcuno che diventa unica fonte di luce in una vita buia.
Sul treno regionale 12047 viaggiano i protagonisti: Carlo, di professione avvocato, che è completamente dedito a curare la madre malata, Filomena. Prende il treno quando lei gli dice che vuole uscire di casa e cerca di assecondare ogni sua richiesta tra cui quella di comprarle una Dyson, la macchina che lei desidera. Cara, nome scelto dalla scrittrice per omaggiare la canzone di Lucio Dalla, si presenta come la classica donna in carriera, che tutte le mattine prende il 12047 per accompagnare all’asilo la figlia Vita e recarsi poi a lavoro, ma che vive con un devastante senso di colpa per non riuscire a occuparsi come vorrebbe della sua bambina. Marco, padre di Carlo, che cerca di proteggere il figlio in tutti i modi tanto da non riuscire a raccontargli la verità che verrà a galla nel corso della narrazione.
Su quel treno non accade nulla di particolare, ma è durante i tragitti che veniamo a conoscenza delle vite dei personaggi.
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I ricordi di Filomena fanno da sfondo alla storia che nascerà tra Carlo a Cara. Le vicende vissute dalla donna sono in linea con quelle vissute da molte madri: i momenti di sconforto per non riuscire a rimanere incinta, la forte depressione che uccide l’animo di una donna quando, al termine di una gravidanza, perde il figlio, le domande e i giudizi degli altri che come una lama affilata feriscono una donna già straziata nei momenti di estrema vulnerabilità al punto da farle sembrare ancora più complicata la situazione in cui si trova. Diamante era la figlia desiderata che non ha potuto crescere, ma che rimarrà per sempre nella mente come un ricordo indelebile. In maniera impeccabile, senza tralasciare alcun dettaglio, la scrittrice si sofferma sulle emozioni, sulle sensazioni, sulle paure che invadono la mente di una donna che vuole a tutti i costi essere madre, che più volte non riesce e che è disposta ad affrontare tutte le sfide possibili, anche quella della procreazione assistita.
Pure Cara deve affrontare differenti prove, prima fra tutte quella di dividersi fra tre lavori: un dottorato all’università, un lavoro part time come segretaria e uno da traduttrice freelance, tralasciando momenti importanti con la figlia e quelli dedicati all’amore che recupererà grazie a Carlo. Quest’ultimo possiede un forte senso del dovere nei confronti della madre che lo porta per anni ad annullare se stesso, ma è grazie a Vita che comincia a vivere.
«Serve un villaggio per far crescere bene un bambino» è il proverbio africano che torna più volte nel romanzo a simboleggiare quanto sia importante per ogni essere umano sentirsi parte di un insieme, di una società, che possa mettere in risalto le potenzialità. I protagonisti vivono in balia della solitudine pensando di cavarsela, ma alla fine capiscono che è solo grazie alla presenza dell’altro che riescono a cambiare rotta e mettersi in discussione. Forse è proprio la piccola Vita a ribaltare così quel celebre detto ea farci diventare consapevoli del fatto che in alcuni casi serva un bambino per far crescere un villaggio. Ogni protagonista ha il suolato buio, vive momenti di grande sconforto in cui tutto sembra non andare per il verso giusto, ma poi arriva qualcuno che porta una ventata di luminosità e che è in grado di stravolgere ogni nostra convinzione.
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«Anche nel buio si può imparare a guardare» è – come la stessa autrice ci rivela nell’Epilogo – la morale di questo romanzo che celebra l’amore materno, l’amore di un figlio per la madre e l’amore tra una coppia. Un libro che aiuta a riflettere sul senso di responsabilità che ognuno di noi ha non solo nei confronti di se stesso, ma soprattutto degli altri e che spesso, a causa della frenesia della quotidianità, non si coglie.
La luce che resta di Evita Greco è dunque quella fonte luminosa che in apparenza non si vede, ma che scavando nel profondo si capisce che è sempre stata lì, dentro di noi, e che bastava solo riportare a galla.
Per la prima foto, copyright: Ankush Minda su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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