"E disse" di Erri De Luca
«Chi sono? Da qualche parte aveva già pronunciato la domanda... a qualcuno doveva averlo chiesto, a chi e perché?».
«Chi siamo?» è la domanda che ci precede; anticipa i popoli e gli individui. La ricerca di noi stessi, che è ricerca di Dio. La ricerca di una parola, del Verbo originario e generatore, primordiale, atavico. Una ricerca lunga quanto l'esistenza umana, vecchia quanto tutta la storia, pesante e profonda quanto il vuoto. Una ricerca che si muove dentro la parola, scava dentro il linguaggio e lì trova appiglio. Perché ad un certo punto qualcuno ha parlato. Il vuoto s'è squarciato ed è passata una saetta. Saetta sotto forma di parola, scolpita sul muro. Linguaggio senza parlante, parola senza soggetto, espressione senza volto. Lui dice "Anokhi", cioè "Io". L'Io che tutti sotto il Sinai stavano aspettando.
E disse, ultimo lavoro del napoletano Erri De Luca (edito da Feltrinelli nel febbraio 2011), ci racconta proprio questa rivelazione. Qualcuno ad un certo punto "disse", un Io impronunciabile parlò. Il titolo è lapidario e brillante, lascia tre puntini di sospensione dietro cui si nasconde l'assurdo. Però quel verbo nel titolo ci illumina da subito; c'è qualcuno che "ha detto" e questo qualcuno ne presuppone un altro che fosse lì ad ascoltare. Il secondo qualcuno è ovviamente Mosè, il padre delle religioni monoteiste. Il primo scalatore, «unico nel suo tempo», che si spinge fino alla vetta del Sinai per toccare il confine tra terra e cielo, cercando una frase «dove gli altri intendono solo silenzio» ed aspettando una risposta che non ha domanda. La scalata a piedi nudi dell'uomo che si porta oltre il limite del vuoto e spinge la sua solitudine oltre il possibile; e quando torna porta con sè la parola. Mosè ai piedi del Sinai svela al popolo d'Israele la parola dell'Io che stava aspettando da sempre. Sulla roccia si scolpiscono lentamente i Dieci Comandamenti.
Il tentativo di De Luca è assolutamente arduo e lodevole, la sua pagina di una densità imbarazzante. Ma la prosa poetica diE disse è forse allo stesso tempo il punto di forza ed il grosso limite. Questa prosa infatti, sebbene a tratti brillantissima, a tratti risulta invece un po' rallentata, forse troppo piena, satura al punto da non riuscire quasi più a districarsi dentro se stessa.
L'inizio è sciolto e geniale. La personale esperienza di scalatore avvicina De Luca alla sua narrazione e questo si avverte sulla pagina. L'autore è accanto al suo Mosè scalatore, lo accompagna e si fa accompagnare, arriva fino alla nuvola e cerca di «guadagnarsi il sole passo a passo», con l'unica arma che ha a disposizione; la parola. Immagini bellissime, frasi lapidarie, aforismi geniali. È il momento della rivelazione.
Piano piano sulla pietra si scolpisce la parola sotto forma di comandamenti. De Luca li mostra, li legge, ne accarezza il senso, con competenza (nel corso della sua carriera ha studiato da autodidatta l'yiddish e l'ebraico antico ed ha tradotto e commentato, anche per Feltrinelli, alcuni testi della Bibbia), però qui la narrazione brucia un po' della sua brillantezza, rimane sospesa tra racconto, saggio e poesia, si spinge in alto al punto da far avvertire la vertigine, si riempie al punto da soffocarsi. Nello scendere troppo in profondità si rischia sempre di rimbalzare indietro verso la superficie. Forse, alla fine, in E disse c'è troppo. Più di quanto si possa sopportare.
In ogni caso De Luca è un ottimo scrittore e sa regalare momenti di altissima intensità. Come quando ci descrive le donne israelite che guardano la rivelazione stamparsi sulla roccia e notano che questa è rivolta ad un "Tu" maschile («l'ebraico separa i sessi pure dentro i verbi e i terminali dei pronomi») e però sanno che questo succede perché a loro è lasciato invece il compito più importante, quello che gli uomini non possono svolgere; la procreazione. O il bellissimo passo in cui De Luca ci sottolinea il senso immancabile ed inviolabile di quel «Non ammazzerai». Mai e per nessun motivo. Per concludere questa recensione con una piccola nota a margine; è bello che durante la lettura torni continuamente in mente quella strabiliante canzone di De Andrè, contenuta nell'album La buona novella, e intitolataIl testamento di Tito. E che quando De Luca, nel primo dei due capitoletti finali, conclude dicendo «E amerai: questa era giusta e ultima consegna. Le riassumeva tutte» sembra che i due testi si tocchino. Alla fine della parabola lo stesso messaggio. Ed è un messaggio che ci piace sentire. Come quell'ultimo verso di De Andrè «...nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore». Due autori diversi, due testi diversi, due linguaggi diversi, due mondi diversi, eppure un cerchio che sembra chiudersi. Allora viene quasi voglia di tornare
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