“E canterò di quel secondo regno”. Il canto I del Purgatorio
Con l’ingresso nel Purgatorio, Dante ci conduce in una nuova dimensione; la disperazione e la sofferenza infernali sono ormai alle spalle, è terminato il luogo della dannazione eterna ed è iniziato il mondo della speranza, quello in cui la pena provata avrà un giorno termine e il peccatore potrà ascendere ai cieli paradisiaci. Proprio per la sua funzione espiatoria, il purgatorio era stato immaginato come una sorta di “secondo inferno”, con pene più lievi ovviamente, e comunemente lo si immaginava sotto terra. Istituito dottrinalmente nelxiii secolo, definito poi nel Concilio di Lione del 1274, il purgatorio mancava, però, di una rappresentazione, di una sua caratterizzazione morale, su cui nulla si era affermato. Dante, dunque, si può dire che quasi lo “crea”: mentre l’inferno e il paradiso poggiavano su riferimenti tradizionali, sulle Scritture, su modelli consolidati, nulla v’era che potesse rendere l’immagine di questo regno di mezzo.
La creazione dantesca ci dona un’altissima montagna agli antipodi di Gerusalemme, circondata dall’oceano, sita nell’emisfero australe, che con la sua altezza raggiunge il cielo della luna, e sulla cui sommità è presente il Paradiso terrestre. La montagna è suddivisa in sette balze o cornici dove sono puniti i sette peccati capitali. La base della montagna è l’Antipurgatorio, che accoglie coloro che si pentirono all’ultimo momento, a cui seguono, nell’ordine, Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria.
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Nel primo canto, Dante e Virgilio si trovano sulla spiaggia alla base del monte, hanno lasciato il regno infernale e sono tornati in un luogo in cui è presente la grazia divina. Non è un caso, allora, che sia il cielo la prima cosa su cui Dante rivolge l’attenzione, presentando l’argomento di cui tratterà:
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
(Pg., I, 1-18)
Tutto è già chiaro. Le acque crudeli sono alle spalle, ora la nave corre verso il nuovo, libera e leggera, così come lo è l’animo, che si carica di speranza e fiducia. Le acque migliori sono la nuova materia, più lieve del crudele mare infernale. Qui non risorge solo lo spirito, ma anche la poesia, che non canta più il regno dei morti precedente, e s’innalza a una nuova rinascita, trasmettendo sempre più l’idea di una resurrezione. Dante si affida alle Muse, e cita tra esse Calliope, la musa dell’epica, la più elevata fra tutte. In questo passaggio viene ripreso il mito raccontato da Ovidio, sul quale merita soffermarsi. Le Piche sono le Pieridi, le figlie di Pierio re di Tessaglia, che dotate di una bellissima voce sfidarono le Muse nel canto, e Calliope trionfò. Come punizione, furono mutate in gazze. Con questo episodio, Dante sottolinea come la forza umana non basti a superare la divinità, e, dovendo cantare un regno divino, anch’egli chieda ausilio al canto insuperabile di Calliope.
Si giunge poi alla prima cosa che colpisce gli occhi, cioè l’azzurro del cielo, con la dolcezza, la mitezza, che lo accompagnano. L’aria, il mezzo, è purissima fino all’orizzonte, il primo giro; gli occhi e il petto gioiscono di questa bellezza, di quest’aria che non è più quella di morte che aveva, invece, oppresso occhi e petto all’inferno, dove non si vedevano né luce né cielo.
Complessivamente, dopo la descrizione iniziale, il canto si può suddividere in tre sequenze: la grande visione del cielo, appunto, poi tutta la parte centrale con il celebre incontro con Catone Uticense, infine la descrizione finale che verte nuovamente sul paesaggio, e presenta ulteriori elementi allo sguardo.
Catone Uticense è il custode del purgatorio, un’invenzione tutta dantesca che è straordinaria pensandoci bene, essendo egli pagano, suicida, e oppositore di Giulio Cesare, eppure messo lì a vigilare in una dimensione tutta cristiana. Proprio, però, in questo apparente controsenso viene giustificata la decisione di Dante, che certo non ha scelto a caso di porre Catone in questo luogo. L’essere pagano non è un ostacolo, anche Traiano è salvato da Dante, e, nel Paradiso, s’incontra Rifeo; pagani indubbiamente, ma dall’animo sincero e retto, e dunque pienamente meritevoli di salvezza. E riguardo Catone vi sono le testimonianze di Seneca e Cicerone, che ne fanno un esempio di virtù, di un osservatore della moralità. E se nell’Inferno si incontravano i suicidi, ebbene Catone è un’eccezione, per altro ammessa anche da Tommaso d’Aquino, da Agostino, di un suicida in nome della libertà, ispirato divinamente, come risuona nel dialogo tra lui e Virgilio:
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
(Pg. I, 70-75)
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Virgilio parla di Dante, e dice a Catone di accogliere con favore la sua venuta poiché il poeta cerca la libertà, quella che ben Catone dovrebbe conoscere, avendo rinunciato alla vita per essa. Catone, nel suo pieno ruolo di custode, dà dunque il permesso affinché essi procedano:
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
(Pg. I, 94-96)
Catone dice che Dante deve cingersi col giunco, segno d’umiltà, e lavarsi il volto dalle tracce lasciate dall’aria infernale, a simboleggiare la purificazione. Nella descrizione che Dante fa del vecchio Catone, a un certo punto dice che «Li raggi de le quattro luci sante / fregiavan sì la sua faccia di lume» (vv. 37-38); le quattro luci sante rappresentano le quattro virtù morali, Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza. Sono le virtù della perfezione umana, che fanno di Catone un esempio di uomo perfetto nella sua natura; sulla cima del purgatorio, nel Paradiso terrestre, Virgilio annuncerà a Dante la sua ritrovata libertà, e porre Catone al principio della salita significa anticipare come sarà l’uomo che riuscirà a giungere alla vetta del monte. Ecco perché Dante potrebbe aver scelto proprio Catone quale custode: un precristiano che, donando la sua vita per la libertà, era già entrato nell’ottica cristiana. Il purgatorio è il luogo dove ci si riappropria della libertà, in modo da poter seguire il bene, di tendere verso ciò che l’uomo libero desidera, cioè Dio stesso, e Catone si fa carico di questo forte valore simbolico.
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Nell’ultima parte del canto, Dante e Virgilio camminano sulla spiaggia deserta, come due pellegrini che tornano a casa:
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
(Pg. I, 118-120)
Ma è un cammino di speranza, come lo sarà tutto il viaggio lungo le sette cornici, con il conforto della luce divina che giunge sotto forma di alba a illuminare i due viaggiatori e a rischiarare le tenebre:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggiva innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
(Pg. I, 115-117)
Riferimenti bibliografici
Alighieri Dante, Purgatorio, vol. 2, in Id.,Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Bologna, Zanichelli, 2001.
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