È ancora lecito studiare la storia dell’arte?
È notizia di qualche mese fa che l’università di Yale, uno tra gli otto atenei più blasonati di tutti gli Stati Uniti, ha deciso di sopprimere il corso forse più frequentato dagli studenti di Lettere e Arte: “Introduction to Art History: Renaissance to the Present”. Le motivazioni che hanno spinto la dirigenza a privilegiare i corsi di “Art and Politics”, “Global Craft”, “Silk Road” e “Sacred places” derivano dalla necessità di de-eurocentrizzare l’introduzione al corso, di cercare in ogni modo di togliere dal piedistallo l’arte europea rinascimentale come punto di inizio per gli studi.
La scelta, criticata dai più, sembra quindi nascere da una sorta di esigenza di globalizzare l’arte e di sviluppare un percorso dialettico tra il Rinascimento europeo e le altre correnti artistiche internazionali: l’arte giapponese, l’ukiyo-e, quella cinese o anche quelle sudamericane. Il rettore afferma che, muovendo da una più generalizzata conoscenza artistica a livello internazionale, gli studenti avranno la possibilità di apprezzare maggiormente l’arte europea rinascimentale il cui corso diverrà specializzante.
L’aspetto su cui è opportuno soffermarsi è, però, che, nei titoli dei vari corsi, è stato abbandonato il concetto di “storia”: è quindi corretto dimenticare le radici della nostra arte? Analizziamo che cosa direbbero Nietzsche e Feyerabend.
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Nella seconda Considerazione inattuale scritta nel 1872 intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich W. Nietzsche critica in maniera mordace ogni forma di storicismo e storiografia e, per estensione, di memoria storica che lederebbero la possibilità dei singoli individui di esprimere liberamente la propria identità, dato che è come se avessero un macigno insostenibile che è, in questo caso, la tradizione precedente. Di conseguenza, egli sostiene la necessità dell’oblio quale forma precipua all’abbandono della coscienza epigona, all’emancipazione dai canoni precedenti che opprimono la mente e l’originalità dei singoli a favore di una totale liberazione, un “punto zero”, diremmo noi, da cui enucleare una nuova realtà, sprigionare la propria fantasia e le proprie idee per generare, piuttosto che imitare. Il filosofo di Röcken evidenzia l’importanza della dimenticanza – testimoniata, tra l’altro, dalla stessa fisiologia umana che sottolinea come l’uomo non possa ricordare tutto ciò che gli accade – in quanto, in caso contrario, gli individui nascerebbero già con i “capelli bianchi”: per evitare questa sgradevole situazione che rappresenta un’impossibilità di sciogliere i lacci che ci tengono vincolati al passato, si prospetta, secondo il filosofo tedesco, un'unica soluzione, quella di dimenticare, di guardare solo al futuro volgendo le spalle al passato. In conseguenza a quanto appena affermato è evidente come Nietzsche condividerebbe pienamente la scelta dell’università di Yale.
Al contrario, se analizzassimo il pensiero di Feyerabend circa il ruolo della memoria storica ci potremmo rendere conto che la speculazione del filosofo austriaco si posiziona agli antipodi rispetto a quella dell’autore di Ecce homo. Paul Feyerabend, infatti, nell’opera Contro il metodo, summa della sua critica epistemologica, sottolinea come l’evoluzione, soprattutto in campo artistico, sia possibile soltanto mediante un “anarchismo (o dadaismo) metodologico”, ossia mediante una rottura epistemologica con il passato che deve avvenire secondo un anarchismo “extra legem”, cioè dopo aver compreso, studiato e approfondito la tradizione passata, dopo averne assorbito le qualità e averne compreso le criticità e i limiti: solo in tal modo, in presenza della memoria storica, vi è la possibilità di emanciparsi dal passato e volare verso il futuro. Al contrario, afferma Feyerabend, se ci si limita a un anarchismo “ante legem” che nasce quindi in una dimensione priva di memoria storica, di conoscenza e coscienza di ciò che è accaduto nel passato, si crea una sorta di rottura epistemologica infantile che vuole rompere con il precedente senza sapere nemmeno cosa sia il precedente. In conclusione, è evidente come per il filosofo austriaco sia di vitale importanza conoscere gli sviluppi della storia – sia essa artistica, filosofica, letteraria, sociale o politica – per poter progredire ed evitare di rimanere conchiusi in una dimensione di a-conoscenza e volontà effimera di emancipazione.
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Dopo aver analizzato, seppur in maniera tangenziale, il pensiero di due grandi della filosofia circa il ruolo della memoria storica per un possibile rinnovamento della società, è possibile concludere che l’università di Yale, con questa sua scelta, da un lato, ha certamente cercato di intercettare la nuova dimensione globale e meta-nazionale che domina il XXI secolo ma, soprattutto, il ridimensionamento che il vecchio continente ha subito nel corso degli ultimi decenni (anche se noi vorremmo affermare di puro carattere economico e non culturale); dall’altro, si può sostenere come l’abbandono del termine “storia” dai titoli dei corsi rappresenti una possibile involuzione verso un insegnamento che non permetta agli studenti una piena comprensione dell’evoluzione dell’arte nel corso del tempo. Insomma, un colpo di spugna per colpa del quale i millenials che si iscriveranno a questi nuovi corsi introduttivi non avranno la fortuna di conoscere a fondo il Rinascimento europeo, uno dei periodi più floridi dal punto di vista letterario e artistico.
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