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«È ammirabile il tuo sereno disprezzo». La lettera di Matilde Serao al Vesuvio

«È ammirabile il tuo sereno disprezzo». La lettera di Matilde Serao al VesuvioNel 1879 Matilde Serao, appena ventitreenne, pubblica Dal vero, una raccolta di racconti edita da Perussia & Quadrio.

 

Nella raccolta è presente anche un’intima e confidenziale lettera indirizzata

 

Al signor Vesuvio, di professione Vulcano,

strada fra Napoli e Salerno,

casa propria – ultimo piano.

 

La lettera, in cui la Serao si rivolte al Vesuvio come a un amico di lunga data, è anche l’occasione per parlare di Napoli, città da sempre al centro delle attenzioni della Serao.

 

Ecco il testo integrale:

 

Carissimo amico,

A momenti sono diciotto anni che ci conosciamo, e l’esserci visti quasi ogni giorno dalla via Santa Brigida, da Santa Lucia e dalla Villa, ha stabilito fra noi due una cordiale intimità. Gli è per questo che ho deliberato di scriverti questa letterina, proponendomi di dirti la verità. Qui tu farai il viso della meraviglia: ma, sicuro, la verità. Ai tempi in cui siamo, lo sconvolgimento sociale è tale che una donna è fin capace di dire la verità ed un editore è capacissimo di stampargliela!

 

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Tu mi sei parso sempre un galantuomo: col ferraiuolo grigio del tramonto, coll’abito nero della sera, col costume verde-bottiglia del mattino, hai avuto sempre molta dignità nel tuo aspetto. Non si può negare che hai anche un bel carattere: è ammirabile la fermezza di non muoverti mai dal tuo posto, ammirabile il sereno disprezzo con cui tu, vivo, guardi la morta montagna di Somma: e dove mettiamo la tua inaccessibilità ai… visitatori? Virtù questa che ogni autorità dovrebbe avere. Non dubito che sei anche un po’ filosofo, filosofo moderno: me lo indica la nebbia di cui spesso ami avvolgerti e il fumo superbo di cui t’incoroni. Quando poi entri nell’esercizio delle tue funzioni e cominci piacevolmente a gittar fuoco e fiamme, allora diventi proprio una persona rispettabile.

«È ammirabile il tuo sereno disprezzo». La lettera di Matilde Serao al Vesuvio

Ma ahimè! tutto decade, tutto passa, tutto si trasforma: le mode, la gioventù, i capelli, gli affetti ed anche i vulcani. Col pressoio della civiltà (carino, quel pressoio, neh? sovratutto nuovo), con la ginnastica del ministro De Sanctis e col realismo che ci piove da tutte le parti, non ci riconosciamo più. Tu stesso, fiero, selvaggio e solitario Vesuvio, pensi a civilizzarti e ci neghi la tua eruzione: rimangono inutili le pressioni, le notizie premature, le preghiere, gli inviti gentili, l’affluenza dei curiosi; la stessa luna si è decisa ad intervenire, e tu continui ed essere in isciopero! Perchè?

Capisco che sette anni fa, volendo compiere il tuo dovere, adoperasti troppo zelo e commettesti cose indegne di un gentiluomo. Mi ricordo quei giorni—che scompiglio, che baraonda, che confusione! Il mondo alla rovescia, uno scombussolamento generale: i professori di matematica impallidivano, gli alunni erano licenziati dalla scuola, le madri non sorvegliavano più le figliuole, le mogli si gittavano nelle braccia dei mariti, gli amici si abbracciavano cordialmente, i vetri tremavano e di notte ci si vedeva meglio che di giorno. Ma dopo vennero le critiche dei giornali, le imprecazioni degli spazzini, i sonetti dei poeti, i quadrettini dei pittorucci, gli episodi dei novellieri; come potevi resisterci? Ti oppressero, ti calunniarono, ti ingiuriarono, ti dipinsero in nero e rosso: ora rinchiuso nel severo e misterioso silenzio dell’uomo che non ha nulla da dire, tu ci neghi l’eruzione.

Pensa che noi potremmo esigerla. Da tempo immemorabile i cittadini di Napoli e dintorni hanno il diritto, almeno ogni cinque anni, ad una graziosa eruzioncella; perchè infine noi siamo brava gente e ci contentiamo di poco: non mormoriamo se invece di acqua ci danno coriandoli, se le vie sono sporche ma ben illuminate, se dappertutto si veggono possidenti in cenci che cercano l’elemosina a miserabili ben vestiti. Tutto questo per noi è nulla; basta che non ci vengano negati i nostri cari spettacoli. I romani avevano il Circo, gli spagnuoli hanno i tori, gli egiziani hanno il Nilo e noi abbiamo il Vesuvio.

Almeno, se non vuoi farlo per obbligo, fallo per compassione: china i tuoi occhi sulla pianura e considera lo stato miserando della tua dilettissima figlia, la gioconda Napoli. Napoli si annoia, e siccome non suole fare mai le cose a mezzo, si annoia profondamente e coscienziosamente: rassomiglia ad una bellissima donna, pallida di spleen, col corpo abbandonato e le mani penzolanti, che ogni tanto apre la bocca… per sbadigliare. Nulla può castrarla ed i suoi languidi occhi semichiusi non veggono d’attorno che cose vecchie; i teatri sono sempre gli stessi, e le emozioni che vi si provano, convenzionali; le passeggiate uguali, dritte e monotone; il cielo sempre sereno, il golfo sempre incantevole, i pomidori sempre eccellenti: sbadigli. Il sole va, viene, fa le smorfiette dietro qualche nuvola, pare che voglia andarsene e non tornare più, ma sono moine: ritorna e sempre col medesimo viso. La luna... ma non parliamo di persone inutili. Tutto è cadenzato, registrato, previsto: nessuno scandalo, duelli... leggieri, avvenimenti straordinarii pochini, le signore tutte in campagna o chiuse in casa per far credere che sono partite. Ci fu una, lotta amministrativa, ma ci si è campato fin troppo sopra ed ora è posta nel dimenticatoio; le alluvioni sono durate tre giorni, la quistione d’Oriente non attecchisce, quella del gran Caffè non interessa. Leda è risanata, i giovedì di ottobre riescono freddi e stentati. E Napoli sbadiglia a canto fermo, come se la sua Università, le sue accademie, i suoi concerti musicali ed i suoi Circoli fossero aperti ed in seduta permanente.

«È ammirabile il tuo sereno disprezzo». La lettera di Matilde Serao al Vesuvio

Non ti narro poi in quale stato di afflizione si trovino alcune classi sociali: primi i giornalisti, ma specialmente i cronisti. Esseri infelici, destinati a soffrire le più crudeli ansietà per la cronaca dell’indomani, girovagando pallidi e con l’occhio smarrito in cerca di notizie. Il loro pranzo, il loro teatro, i loro sonni innocenti sono turbati dal pensiero fisso, dominante della cronaca: e pensare che senza tuo grave incomodo, tu potresti sollevarli! Vengono gli innamorati: per essi, poveretti, è finita la bella stagione di estate e con essa i colloqui acquatici, le passeggiate alla Villa, le escursioni in barca, le serate trascorse sui terrazzi: non vi è più alcun pretesto per rimanere all’aperto, al solo lume delle stelle—fa fresco, bisogna starsene nel salotto sotto la sfolgorante luce del petrolio, a contare i sospiri e le occhiate. Eppure, se tu, o Vesuvio, volessi… Oh! come saresti benedetto! Gli albergatori sono addirittura disperati: la compiacente Stefani si era benignata annunziare alle cinque parti del mondo che il vecchio vulcano si era finalmente deciso, e dalle cinque parti del mondo cominciavano a giungere gli amatori; l’inglese, genere che si va facendo rarissimo e difficile, abbondava sulla piazza; i corrispondenti arrivavano con l’inseparabile taccuino; qualche Altezza in istretto incognito era annunziata, e già i suddetti albergatori, col cuore immerso nei giubilo si preparavano a scrivere nelle loro note: Vue, par le fenêtre du Vésuve en éruption, 40 francs. Invece delusione grandissima; ed ora negli alberghi si potrebbero stabilire delle fabbriche di tamarindo concentrato nel vuoto.

Il professore Palmieri, tuo buono e fedele amico, che era venuto a farti una visita, è stato costretto a tornarsene via disgustato dalla freddissima accoglienza che gli hai fatta: non ti vergogni di tanta ingratitudine? Il sismografo arrossisce del suo forzato riposo; l’eremita crolla il capo, pensando alla caducità del genere umano, e le povere guide, assise sulla lava raffreddata come Mario sulle rovine di Cartagine, vanno melanconicamente esclamando: La montagna è morta, la montagna è morta!

 

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È poi vero che sei morto? Sei forse diventato indifferente alle voci dei figli tuoi? È scetticismo il tuo o pietà? Se ti piglia pensiero dei graziosi villaggi che sorgono sui tuoi fianchi, se temi per la loro salute, allora fa una cosa: non curarli, lasciali da parte, disprezzali, prendi un’altra via. Va all’aperto, sconvolgi, rovina, illumina, incendia, dove non sono quei miserabili ostacoli, dove trovi la strada libera: in ultimo avrai anche la coscienza pulita, qualità che non hai sempre avuto premura di possedere. Non conosco le tue opinioni politiche: ma ti consiglierei, se devi presto abbracciare un partito, di essere moderato.

Dunque deciditi: migliaia di occhi stanno rivolti verso di te, si freme, si spera, si aspetta… fa il tuo dovere, o saggio Vulcano. Senti, a rimanere là impalato, taciturno come un disutilaccio, a godere un impiego che è una vera sinecura, ad occupare un posto che non ti spetterebbe più, ci fa brutta figura. Offri piuttosto le dimissioni e liquida la tua pensione di ritiro: si penserà a rimpiazzarti. In premio dei tuoi lunghi ed onorati servigi, malgrado le tue ultime deficienze, ti faranno forse commendatore.

Su che, ho il piacere di salutarti.

 

Ottobre 78.

Devotiss. tua MATILDE SERAO

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