Due inediti di Yukio Mishima, lo scrittore-samurai
Personalmente, nel comprare un libro, soprattutto fra i grandi classici, o di autori che non conosco, ho sempre fatto molta attenzione agli apparati critici e, se indeciso fra due edizioni, spesso mi sono ritrovato a scegliere quella con il paratesto più completo. A differenza di quanti neppure leggono l’introduzione per non “farsi rovinare la trama”, ho sempre trovato che il piacere di una lettura fosse infinitamente maggiore se accompagnato da una contestualizzazione e da un commento che mi guidasse, presentandomi interpretazioni, punti di vista e impressioni che avrei poi sommato ai miei.
Per tale ragione (e molte altre) ho molto apprezzato il volume di Atmosphere, uscito il 28 febbraio scorso, che raccoglie due scritti di Yukio Mishima: Medioevo e Il Palazzo del bramito dei cervi.
I due testi – un racconto il primo, dramma teatrale il secondo – sono infatti stati curati magnificamente da Virginia Sica la quale, oltre ad essersi occupata della traduzione, ha compilato una sintesi bibliografica dell’autore, un inquadramento storico delle vicende narrate (che fa anche da introduzione) e un completo apparato di note per entrambi i testi, permettendo una lettura piacevole e consapevole anche per chi, come chi scrive, non solo non conosce l’autore, ma è totalmente a digiuno di letteratura e cultura giapponese. Il libro adatto per farsi introdurre in un mondo tanto affascinante quanto lontano dalla nostra sensibilità.
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Medioevo è un breve racconto scritto da un Mishima ventenne durante il secondo conflitto mondiale, che vedrà la luce nel 1946. Un testo giovanile, a tratti ancora manieristico e permeato di quel sentimento dell’art pour l’art che Mishima professava in gioventù, e che perciò ebbe poca fortuna nel Giappone del secondo dopoguerra dove si impose una sorta di neorealismo.
Medioevonon è però un racconto avulso dalla realtà, l’esperimento letterario di un giovane virtuoso. In questo breve testo sono rintracciabili infatti le tematiche che ossessivamente ritorneranno della narrativa dello scrittore giapponese, come il senso di colpa ol’incontro dell’uomo con il suo abisso interiore, il tutto raccontato in un’aura da Giappone feudale, fatta di fiori di ciliegio, eleganti giardini, spiritualità zen, e politica implacabile.
«Nel terzo anno dell’era Chokyo, il ventiseiesimo giorno del terzo mese, Ashikaga Yoshihisa, Signore del Padiglione della Virtù Perenne, morì all’età di venticinque anni presso l’accampamento del villaggio di Magari, nella provincia di Omi.»
Questo l’incipit. Siamo al crepuscolo dell’era degli Shogun e il racconto si apre con la morte di Yoshihisa, signore feudale nipponico, e racconta il lutto estremo del padre Yoshimasa, un uomo intriso di una sensibilità romantica (sempre declinata secondo i canoni orientali di una malinconica contemplazione dell’ordine e del disordine della natura, rappresentata dal giardino della villa) la quale lo portò, appena possibile, ad abdicare in favore del figlio e fuggire dal mondo con un monaco a Higashiyama, una lussuosa villa, progettata e arredata dallo stesso secondo le proprie idee di bellezza, equilibrio e spiritualità.
Il lutto e il dolore sono il male che trascina verso il basso Yoshimasa in una silenziosa lotta contro i propri demoni.Lotta interiore che accomuna, ovviamente sotto altre forme, tutti i personaggi del testo, come il maestro zen Ryokai che si innamora del danzatore di saguraku Kikuwaka (un tempo favorito del defunto Yoshihisa), la sarcedotessa Ayaori, giovane e malinconica medium dall’incredibile bellezza, o ancora l’anziano medico Teia, alla ricerca di una medicina che renda l’uomo immortale, facendo di questo scontro il personaggio principale del racconto.
Il Palazzo del bramito dei cervi (oRokumeikan, titolo originale del testo, come d’ora in poi verrà ricordato) è invece un’opera teatrale, composta nel ’56 (e dunque più matura rispetto al precedente Medioevo), che riscosse (e continua tutt’oggi a riscuotere) sin dalla prima grande successo in patria e nel mondo intero.
Le avventure ivi narrate sono ambientate in un’epoca molto problematica per l’isola asiatica, che di fatto definì la strada che avrebbe poi fatto del Giappone quello che oggi conosciamo, ovvero il XIX secolo. In quegli anni la nazione nipponica iniziava ad aprirsi al mondo occidentale, rappresentato essenzialmente da Europa e Stati Uniti, sia dal punto di vista commerciale e produttivo, che da quello della moda, della cultura e degli usi. Proprio per accogliere i dignitari stranieri e organizzare balli con ospiti internazionali il governo aveva costruito lo sfarzoso palazzo del Rokumeikan, inaugurato il 28 novembre 1883, così descritto da Virginia Sica:
«Un capolavoro di ibridismo stilistico, definito “rinascimentale francese”: gli alti portici ricordavano gli imponenti ingressi dell’architettura inglese; le arcate aperte sui due piani suggerivano un’architettura rinascimentale italiana; il piano superiore evocava Parigi per i tetti che riecheggiavano quelli del Louvre. Conteneva innumerevoli sale, un salone da ballo, una biblioteca, una stanza per il biliardo, vari alloggi per gli ospiti internazionali, un salone per le cene di rappresentanza, salotti per il consumo di alcolici e impiegava anche personale francese.»
Su questo sfondo Mishima dipinge un dramma fatto di affetti come l’amore filiale o coniugale, che si scontra però con gli intrecci della politica e il cinismo degli arrivisti, in una trama godibilissima che tiene il lettore – o lo spettatore – incollato allo sviluppo sino al suo drammatico svolgimento. Ad accompagnare la trama, continue riflessioni, abbozzate nelle battute dei personaggi, sul rapporto del Giappone e dei suoi abitanti con il resto del mondo.
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Così i fautori della riconciliazione con Europa e Stati Uniti presiedono ai ricevimenti al Rokumeikan, obbligando le mogli a vestirsi all’occidentale al fine di compiacere gli stranieri, mentre i ribelli conservatori criticano le scelte del governo, considerate disonorevoli, perché fanno del Giappone una serva delle grandi potenze che si inchina ad esse disprezzando la propria cultura al punto da vestire le sue donne “come accompagnatrici” e farle ballare “come scimmie”.
Se sia il caso di uniformarsi agli altri oppure seguire la propria tradizione, rifiutando tutto quanto non sia con essa compatibile. Una riflessione centrale, oltre che nel XIX secolo, anche quando il libro fu scritto, nel secondo dopoguerra, prima che la vittoriosa globalizzazione rendesse questo dubbio inutile e superato.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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