Due bambini nella Russia di Stalin. “Inseparabili” di Anatolij Pristavkin
Inseparabili, edito da Guerini e associati, è un romanzo di Anatolij Pristavkin, tradotto e curato da Patrizia Deotto. Il libro, il cui sfondo è quello della Russia stalinista (tra gli anni 1944-1945), racconta la storia drammaticamente ironica, a tratti grottesca, di due gemelli identici e inseparabili: i Kuz’min.
La cifra caratterizzante dei due protagonisti è insita proprio nella loro complementarità, se Saska è una vera e propria fucina di idee e riflessioni, Kol’ka è in grado di dare forma ai progetti del primo. Dopo i primi anni trascorsi nell’orfanotrofio di Tomilino – cittadina della Russia centrale –, dove più volte avevano dato dimostrazione delle loro forza, della loro tenacia e del loro ingegno, vengono trasferiti presso il Caucaso, dipinto dai racconti che i due undicenni sentono quotidianamente e dalla grande letteratura russa come un vero e proprio locus amoenus.
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Come analizzato anche nella postfazione, il nucleo narrativo centrale del libro ruota proprio attorno al Caucaso. Inizialmente dipinto come “terra promessa”, i gemelli ben presto si dovranno scontrare con la cruda realtà storica: le deportazioni dei ceceni, la ricerca esasperata dei nemici del popolo e gli effetti delle grandi purghe. Il paesaggio sembra sussumere le condizioni della Russia tutta, così appaiono particolarmente suggestivi gli effetti narrativi dovuti allo scontro tra il silenzio dei luoghi naturali caucasici e gli improvvisi frastuoni di bombe e aerei che irrompono inesorabilmente nell’idillio immaginato dai protagonisti, anch’essi, in effetti, rispecchiati in quel paesaggio naturale dalle vette identiche del monte El’brus. Così il silenzio non diventa assenza di rumore, ma una sorta di bolla, pronta a esplodere, contenente urli, grida e scoppi, assume le sembianze di una testa china innanzi al consumarsi della tragedia umana.
«Avvertivamo una sensazione di freddo nella pancia e nel petto, il desiderio folle di andare via, di nasconderci, di fuggire, ma tutti insieme, non da soli! E, naturalmente eravamo sempre sul punto di gridare! Stavamo zitti […]. Comunque quel cammino attraverso la notte, carica di morte, era il nostro slancio verso la vita, di cui non ci rendevamo conto.»
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Vita e morte, così come i Kuz’min, non riescono a scindersi mai tra le pagine di questo libro, una rincorre l’altra, toccandosi all’infinito delle situazioni-limite, in cui più volte Kol’ka e Saska si trovano. Se all’inizio fuggivano di fronte a problematiche complesse, di sicuro non alla portata di due ragazzi undicenni, possiamo vedere come avvenga una progressiva maturazione – anche se risulterà poi fatale –, grazie soprattutto all’intervento di Regina Petrovna, educatrice e madre di due bambini che prenderà a cuore i due gemelli, fungendo quasi da madre per loro, da acqua viva pronta per farli germogliare. E così avviene quel passaggio anticipato nelle prime pagine:
«Volavamo verso l’ignoto come i semi nel deserto. In realtà nel deserto della guerra. Ma prima o poi finiremo in una fessura, in una piccola fenditura, un buco qualsiasi… E se fluirà la carezza premurosa dell’acqua viva germoglieremo.»
Petrovna è forse uno dei personaggi che più aiuta i protagonisti, ma forse qui la volontà dello scrittore non è quella di tracciare il confine esatto tra antagonisti e aiutanti, quanto quella di voler porre una domanda a ciascun partecipante del romanzo, lettore compreso:
«Lo guarderei negli occhi e gli domanderei se è un uomo o una bestia. Se in lui c’è ancora qualcosa di vivo.»
È questo il compito di tutti i personaggi, fare un massaggio cardiaco all’umanità sepolta, rinnegata o taciuta, andando oltre i confini del presente, dei sentimenti o della memoria. Non a caso il narratore della vicenda talvolta sembra coincidere con uno dei due gemelli, altre volte invece si distanzia, proprio per veicolare un messaggio che non rimanga schiacciato dalla bidimensionalità della pagina ma che diventi partecipe del nostro bagaglio esperienziale.
Funzionale a questo compito è anche l’uso di una sapiente e tagliente ironia fortemente ancorata al reale, deformandosi fino al grottesco. Le canzoni cantate più volte dai ragazzi orfani, gli inni al lavoro, alla vita comune sembrano deformarsi se visti con gli occhiali dei Kuz’min. Uno degli slogan più volte ripetuti afferma proprio «Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice», ma risulta antitetico a quanto sofferto invece da Kol’ka e Saska. In questo «ossimorico binomio di euforia e terrore» (Cfr. G.P. Piretto, Il radioso avvenire, Einaudi, Torino 2011), comune a tutte le dittature del tempo, ancora più significativo appare quanto affermato da una poesia riportata nel testo:
Una nuvoletta dorata dormiva
Sul petto di un gigantesco scoglio
Di buon mattino è ripartita,
E nell’azzurro gioca allegra.
Ma una traccia umida è rimasta
In una piega del vecchio scoglio. Solitario
Si erge, immerso nei suoi pensieri
E sommesso piange nel deserto…
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L’esistenza dell’individuo è ridotta a una traccia d’umidità, niente di più. Lo scopo autentico di Pristavkin, considerando anche la parte finale del libro, è quello di rinnovare le nozioni di pace, tolleranza e confronto oggi, ancora una volta, messe a dura prova. Solo partendo dal rispetto di se stessi, della propria identità ma anche e soprattutto aprendosi al confronto con l’altro l’essere umano diviene partecipe di quell’humanitas da molti osteggiata e da pochi posseduta.
Per la prima foto, copyright: Daniel Born.
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