DRAG PENNY OPERA – ovvero, Bertolt Brecht e John Gay in chiave drag queen
Ha debuttato in prima nazionale, al Teatro Elfo Puccini di Milano, il trascinante Drag Penny Opera, riscrittura en travesti dell’Opera del mendicante di John Gay, proposta dal collettivo Nina’s Drag Queen, con la drammaturgia di Lorenzo Piccolo (Premio Tondelli 2011, per La casa di carta) e la regia di Sax Nicosia. Le repliche proseguiranno fino all’8 novembre.
Questo ensemble di attori e performer, sotto la direzione artistica di Francesco Micheli, nasce otto anni fa all’interno del Teatro Ringhiera, in piena periferia milanese, e da tempo è impegnato in un lavoro di riflessione sui classici. La precedente intuizione, presto di ritorno a Milano, è Il giardino delle ciliegie – fulgida ed estrosa riscrittura (che però conservava le battute originali del testo) del capolavoro di Anton Čechov dove la regia di Micheli, con efficaci accenti strehleriani, si proiettava su una scenografia di oggetti feticcio e foglie secche che ospitavano gli affani di una nobile casa russa in decadenza.
Rispetto alla rilettura del capolavoro cechoviano, questa volta la drammaturgia originale di Lorenzo Piccolo e la regia di Sax Nicosia affrontano con maggior indipendenza l’eroicomica pièce di partenza, costruendo un ordito inedito che cuce insieme la vicenda iniziale con elementi vicini a Brecht, al teatro postdrammatico e al teatro di rivista.
Sono gli albori dell’anno 1728 quando John Gay debutta con L’opera del mendicante dando vita a un nuovo genere teatrale, la ballad opera (in sostanza, la nonna del musical novecentesco). L’autore ha fondato lo Scriblerus Club, insieme a Jonathan Swift e Alexander Pope. Sono “gli sribacchiatori”: penne che sbeffeggiano i potenti, con piglio misantropico, critica dei clichè del tempo e solida fedeltà al rovesciamento come pratica narrativa. Non è un caso che la struttura inventiva de L’opera del mendicante voglia in scena gente di malaffare: prostitute, ricettatori, ladri, corrotti. È una degradazione farsesca su cui, circa due secoli dopo, Bertolt Brecht impianta la sua riscrittura più conosciuta: L’opera da tre soldi, mutuando l’impianto generale dal suo predecessore e affidandosi a Kurt Weil per la composizione delle musiche dei song.
Diversamente, in Drag Penny Opera, la ricerca musicale è doppia. Da un lato c’è la citazione e il pastiche: i song diventano playback gustosissimi, o delicati pezzi rap o, ancora, canzoni che escono dal boccascena per coinvolgere il pubblico (come da tradizione del teatro di varietà). Insomma, la playlist è nel segno della contaminazione: Bellini, Mina, Petra Magoni, gli Eurithmics, Domenico Modugno, per fare qualche esempio. Accanto a questa dimensione, c’è una seconda trama sonora, fatta dalle musiche originali per pianoforte di Diego Mingolla, che si muove tra riferimenti pop e suoni più distillati, che alludon all’espressionismo.
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In quest’orizzonte sonoro, Nina’s Drag Queen mette in scena le cinque donne della vita del bandito Macheath, di fronte al suo patibolo: in un lungo flashback scopriremo che hanno lungamente complottato l’una contro l’altra e contro di lui, senza esclusione di colpi. L’ambiente è quello notturno, a tratti claustrofobico, dei bassifondi di una città senza nome; bassifondi che a ben vedere si estendono ovunque grazie ai suoi emissari: truffatori, mendicanti, banditi, polizia corrotta. È una corte grottesca e seducente quella che sfila sul palcoscenico: la signora Peachum regina dei mendicanti e la figlia Polly (che ha sposato in segreto Macheath); Jenny, prostituta e protettrice; il prezzolatissimo capo della polizia Tigra Lockit e sua figlia Lucy, forse l’unica amante sincera del malvivente. Il nome Macheath, in inglese, è già un programma: heath significa brughiera, e dunque si può decifrare così come “colui che vive dandosi sempre alla macchia”, per furfanteria, ma anche per combustione interna, incapacità di trattenersi. Non manca dunque di intima coerenza la decisione scenica e drammaturgica di occultare Macheath, ma di renderlo tuttavia presente con un artificio surreale e terribile: un cappio percorso da innocenti lucette, che passa di mano in mano. Macheath diventa oggetto e al tempo stesso corpo diffuso, grazie a una voce fuori campo che lo rappresenta e scandisce il passare del tempo, fino all’ora cruciale.
Lo spettacolo, benché scenograficamente misurato, è sontuoso, muscolare, coinvolgente. Gli attori si tramutano agilmente da scintillanti drag su tacchi a spillo a servi di scena fetish, figure del paesaggio, a volte ombre che fanno da contrappunto alla recitazione degli altri. È un cambio di fisicità e di peso fondamentale, che crea in chi guarda l’incapacità di determinare quante figure siano effettivamente presenti. Degni di nota, in questo senso, il lavoro sullo spazio del regista Sax Nicosia e quello coreografico di Alessio Calciolari. Nonché l'esemplare livello interpretativo di tutti e cinque gli attori in scena, di alto divello per tutta la durata del lavoro.
Le scelte illuminotecniche sostengono l’atmosfera noir della storia, talvolta invitando lo spettatore a compiere una sorta di detection: cercare nei dettagli, indagare i chiaroscuri, percepire come elemento essenziale “quella fetta di buio” da cui si giunge e in cui si può sempre scomparire.
«Noi lavoriamo in quel lasso di tempo, breve, in cui la finestra del vostro cuore rimane aperta. Come un ladro esperto conosce i turni della ronda, anche noi dobbiamo colpire prima che sia tardi, prima che si richiudano i vetri. Ma è un tempo tanto breve: cosa potremo mai fare?»,recita il testo a un certo punto. Il colpo è messo a segno. Questo mondo magico e basso risuona nell’inconscio dello spettatore, cioè quello spazio profondo che ha a che fare col gioco, il paradosso, il travestimento e una certa dose di spietatezza.
Il teatro drag è un teatro alchemico. Col tono dello scherzo, del cinismo cosparso di paillettes si possono dire le cose più provocatorie. Le più vere, forse. Senza che questo diventi lezione. Infatti, ammonisce la signora Peachum: «La verità … ma chi ci crede? Abbiamo bisogno della rappresentazione».
Il testo di Lorenzo Piccolo è agile, tiene le fila della trama, riuscendo ad aprire costantemente altre dimensioni: discorsi a pubblico, giochi di parole, gag, riflessioni politiche. Non manca un certo discorso metateatrale, quando si richiamano le questioni più radicali del fare teatro. L’azione torna comunque a prevalere, ma le possibilità che offre la maschera drag vengono sfruttate a pieno; in ogni battuta sferzante si nasconde un altro senso possibile. Dal tragico al grottesco e alla farsa, il movimento di andata e ritorno è continuo, il ribaltamento sempre all’opera.
La pièce non si incrina mai e all’atmosfera più pacata delle scene centrali fanno da contrappunto gli ultimi tre quarti d’ora dello spettacolo sempre in levare, musicalmente e visivamente appaganti, pieni di sorprese e non esenti da una buona dose di pathos; sino al gran finale: una sorpresa policroma, che strappa oltre sette minuti di applausi agli spettatori in festa.
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