Dove nasce e muore il calcio. “La partita. Il romanzo di Italia-Brasile” di Piero Trellini
Barcellona, Stadio di Sarriá, nella zona alta della città catalana. È il 5 luglio 1982, Italia e Brasile scendono in campo per il secondo turno eliminatorio del Campionato mondiale di calcio di Spagna. L’Italia di Bearzot, per passare, ha bisogno di vincere. Al Brasile, invece, basta un pareggio. Milioni di italiani guardano la partita, radunati intorno al televisore. Tra questi c’è anche un dodicenne Piero Trellini. «Eravamo su un lettone matrimoniale, perché era il lato fresco della casa, con uno dei primi televisori a colori, un telecomando con due tasti (uno accendeva e l’altro cambiava). Per una strana interferenza se si starnutiva il canale cambiava e bisognava cambiare canale fino alla fine del giro e tornare indietro. Quel giorno non potevo proprio avere il raffreddore».
Da quel giorno Piero ha cominciato a raccogliere ritagli di giornale, notizie, fotografie, tutto ciò che riguardava quella partita. Si può dire che il primo romanzo lo ha scritto nelle settimane successive a quel 5 luglio. Poi, negli anni successivi, il pensiero tornava incessantemente a quella partita, che per lui aveva segnava l’inizio e la fine del calcio. Quei novanta minuti, con gli anni, con le ricerche, sono divenute seicento pagine che la casa editrice Mondadori ha dato ora alle stampe con il titolo La partita. Il romanzo di Italia-Brasile. Al centro – ormai dovrebbe essere chiaro – c’è la partita che tutti coloro che c’erano ricordano con gioia e della quale chi non c’era ha sentito parlare come la favola perfetta, quella in cui una squadra data fin dall’inizio per spacciata batte il Brasile dei fenomeni, per di più con una tripletta di Paolo Rossi che i più consideravano un giocatore finito. L’Italia, lo si sa, avrebbe vinto il suo terzo Campionato del Mondo.
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Mi diceva che per lei il calcio nasce e muore con quel mondiale.
Italia-Brasile è stata una delle prime partite che ho visto e successivamente non sono mai riuscito a trovarne un’altra di eguale bellezza. Pertanto per me il calcio nasce e muore con quella partita. Per questo è rimasta cristallizzata nella mia testa e l’ho conservata per tutti questi anni. Nel tempo il mio rapporto con la partita si è sviluppato: all’inizio era più banale, era solo una partita, era solo “i buoni contro i cattivi”, era solo la favola del giocatore in cui nessuno credeva. Poi è divenuta qualcosa di più complesso e sono andato oltre quei novanta minuti per cercare di capire le origini di tutte storie che si incontrarono in quello stadio di Barcellona.
Lo spazio dato a queste storie in qualche modo sconvolge il nostro tradizionale modo di sentir raccontare il calcio. Penso alle vicende di Abraham Klein, l’arbitro che diresse la partita: una persona contro cui siamo abituati a urlare, che solitamente ha tutto tranne che una sua storia personale, diventa un personaggio, dotato di una vita fuori dal campo, di preoccupazioni, affetti e speranze. Insomma, quella partita assume una luce nuova dalla sua lettura, filtrata dalla storia politica e sociale e le vicende pubbliche si intrecciano alle vicende private, un legame che spesso passa sullo sfondo dei nostri discorsi. Quali operazioni, insomma, hanno trasformato quei novanta minuti in un romanzo di oltre seicento pagine?
Tutto è finalizzato alla partita. A me premeva raccontare la partita con i miei occhi, mettendo a fuoco alcuni aspetti marginali, dilatando quanto più possibile determinate azioni, certi istanti. È una partita che viene raccontata per forza di cose sempre allo stesso modo, perché è una partita perfetta, una favola perfetta, anche gli stessi protagonisti raccontano le stesse cose con le stesse parole. Mi sembrava, tuttavia, che ci fosse tanto altro da dire. E questo tanto altro ho cercato di metterlo sotto la mia lente, fermarlo, girarci attorno.
Un altro aspetto di cui si è parlato molto è cosa ha comportato quella partita.
Per certi versi Italia-Brasile ‘82 ha cambiato, non dico l’Italia, ma diversi suoi aspetti, sì. Ha contribuito, per esempio, al rafforzamento dell’identità nazionale. Si può dire che con quella partita inizi la stagione del made in Italy e che prenda il via il grande boom dell’Italia degli anni Ottanta. Di tutto questo si è parlato sempre tanto, ma io ho cercato di capire come si è arrivati a ciò. Siccome avevo accumulato una quantità di materiale spropositato negli anni, per organizzare tutto mi sono fatto guidare dallo spazio, che mi ha indicato tutti gli elementi di cui volevo parlare (il campo, il pallone, i cartelloni pubblicitari, i fotografi, le personalità in tribuna) e poi sono andato indietro nel tempo, dove ogni storia è cominciata. Ciò mi ha permesso di avere tanti inizi che cominciano in parallelo e che a un certo punto si avvicinano, si sovrappongono, che arrivano alla partita e poi esplodono. Se racconto la P2, per esempio, non è per parlare dello scandalo, ma per spiegare alcuni elementi di quella giornata e di quella Italia.
Per esempio?
Spadolini era il presidente nel 1982 perché era caduto il governo a causa della P2. Mario Soldati si trovava a Barcellona perché, sempre a causa della P2, era caduta la direzione del giornale [«Il Corriere della Sera», ndr], Enzo Biagi se n’era andato e Soldati era stato chiamato al suo posto. Se Gianni Brera e Mario Sconcerti erano i due rappresentati di «Repubblica» quel giorno allo stadio è sempre per ragioni che hanno a che fare con la P2.
Nelle prime pagine del libro parla della necessità di una speranza, di un disperato bisogno di eroi.
L’atmosfera malinconica, di tristezza, di paura, si percepiva un po’ in tutto. Sono molto affascinato da quel decennio, sia per le cose nere che per quelle meno nere, ma anche le cose meno nere sono nere, sono tristi. Amici miei (1985), commedia campione d’incassi, è una commedia malinconica, ha un tema musicale struggente. I film d’azione di quel periodo sono catastrofici. Il colore che andava per la maggiore era il marrone. Insomma, c’era una serie di elementi che anche nella buona sorte erano pregni di tristezza. Senza contare il terrorismo italiano, la paura dei rapimenti. Anche i film per bambini erano tristi. Per questo negli anni Ottanta c’è stato un desiderio folle di uscire fuori. Non è un caso che in ambito cinematografico in quegli anni siano usciti molti film legati ai supereroi. Rocky, per esempio, era diventato un’icona, così come Superman. C’era una tensione verso un qualcosa di buono che abbiamo trovato nel mondiale. In quel mondiale ci siamo tuffati tutti quanti.
Paolo Rossi è forse il protagonista per eccellenza della partita, simbolo di un’Italia data per sconfitta.
Lui è l’epicentro della favola perfetta. Nessuno credeva in lui, tutti lo criticavano e lo consideravano un giocatore finito. C’erano giocatori molto più in forma di lui. Non solo non era in forma ma inoltre non giocava da due anni. Bearzot aveva un’impostazione all’antica, credeva nelle rinascite, credeva nelle persone: nel Mondiale precedente Paolo Rossi aveva segnato tre gol e aveva portato l’Italia tra le prime quattro. Per una serie di ragioni aveva la necessità che lui rinascesse, ne aveva bisogno. Convocarlo è stato un atto coraggioso, puntare su di lui è stato un atto generoso.
Una delle tante situazioni che nel calcio odierno difficilmente potrebbero verificarsi.
Oggi nessun allenatore punterebbe su un giocatore fuori forma. All’inizio di quel mondiale lui era quello che stava peggio di tutti, ma come lui metà della nazionale non era messa bene. Molti di loro erano acciaccati, stanchi. Il campionato si era risolto a un quarto d’ora dalla fine, tenendo le due squadre in lizza per lo scudetto, Juventus e Fiorentina, in tensione fino all’ultimo. E tenga presente che la nazionale era composta quasi esclusivamente da loro. Era un modo di pensare più semplice, meno calcolato. Bearzot faceva giocare sempre le stesse persone. Questo secondo me ha influito notevolmente sull’evolversi del mondiale.
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Concludendo, sugli spalti c’erano, tra i tanti, Mario Soldati, Manlio Cancogni, Vargas Llosa e Oreste del Buono, fra le penne più raffinate del nostro Novecento. Alcune pagine in particolare sono dedicate a Gianni Brera e Arpino e alla loro amicizia. Una delle tante storie che s’intrecciano con quella partita.
Quel mondiale segnò la rottura di un idillio tra loro. Due intellettuali molto uniti che si omaggiavano in continuazione nei loro scritti. Brera aveva definito Arpino il mio Nobel privato. Arpino, però, era una persona più delicata, mentre Brera andava a schiacciare i suoi interlocutori. L’uno era l’inverso dell’altro: Arpino era uno scrittore prestato al calcio, Brera era un giornalista che voleva disperatamente essere un romanziere, ma la necessità lo aveva portato sempre a scrivere d’altro. Finirono per detestarsi.
Un libro, questo di Trellini, che dunque va oltre il calcio, oltre una partita di calcio e può regalare un quadro di un periodo di tempo che chi ha vissuto potrà ricordare nel bene e nel male e chi invece non c'era o era troppo giovane per ricordarlo potrà cominciare a conoscere da vicino.
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