Donne Novecento – Anna Repetto in “Una notte del ’43” di Giorgio Bassani
Su questa rubrica abbiamo già “ospitato” Giorgio Bassani precisamente un anno fa, quando abbiamo parlato de Il giardino dei Finzi-Contini, soffermandoci sul personaggio di Micòl.
Per festeggiare un anno dalla nascita di questa rubrica, torniamo a occuparci di Bassani con la raccolta di racconti Cinque storie ferraresi, pubblicato dalla casa editrice Einaudi e che gli valse il Premio Strega nel 1956. Protagonista è, come nel caso del romanzo già citato, Ferrara, città natale di Bassani. Cinque, come si evince dal titolo, i racconti: Lidia Mantovani, La passeggiata prima di cena, Una lapide in via Mazzini, Gli ultimi anni di Clelia Trotti e Una notte del ’43.
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Quest’ultimo racconto – che ha ispirato il film La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini – tratta di un eccidio avvenuto a Ferrara il 15 dicembre 1943. Una rappresaglia, undici vittime fucilate, le prime della guerra civile. Una vendetta del nazi-fascisti per vendicare la morte del camerata Bolognesi:
«Nessuno andò a letto, nessuno pensò a dormire. Non ci fu ferrarese, insomma, che non temesse di vedere invasa la propria casa. […]
Le vittime della rappresaglia erano cinquanta, cento, duecento. […] Non erano che undici, invece, riversi in tre mucchi separati lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al Caffè della Borsa. […] Erano soltanto undici, d’accordo. Ma si trattava di persone a Ferrara troppo note, di persone delle quali, oltre ai nomi, si conoscevano troppo bene infinite particolarità del fisico e del morale, perché la loro fine non apparisse di primo acchito un evento spaventoso. […]»
Tutta Ferrara, quindi, si trova avvolta nella nube dell’orrore e del raccapriccio. Tutti si chiedono: chi sono gli autori della strage? Gli “squadristi veneti”, d’accordo, ma soprattutto il ferrarese Carlo Aretusi, detto “Sciagura”, fascista dalla prima ora e protagonista della marcia su Roma del ’22. Lui stesso lo ammette, durante il funerale del console Bolognesi, parlando di “undici traditori”.
Ma il racconto non parla solo del tradimento più feroce, l’omicidio, la strage dei propri concittadini: il filo rosso del sangue versato si intreccia ad altri tradimenti. Il primo è quello “privato” di Anna Repetto, moglie del farmacista Pino Barilari, che, costretto all’immobilità per via di una malattia venerea presa in gioventù, passa tutto il suo tempo alla finestra su Viale Roma, guardando ciò che accade. Così Bassani descrive Anna:
«Bionda figlia diciassettenne di un maresciallo dei carabinieri oriundo di Chiavari e da qualche anno di stanza a Ferrara con la famiglia. Si trattava di un tipo piuttosto sfrenato, perennemente a zonzo n bicicletta o a ballare nei Circoli Rionali.»
Il matrimonio con Pino non è felice, Anna lo tradisce spesso e anche quella fatidica sera la donna esce da sola:
«Dove è che vai?» aveva domandato Pino la sera del 15 dicembre, levando il capo dal solitario. Alzatasi da tavola, la moglie Anna si dirigeva già verso la porta. Ed era stato all’ombra del corridoio, in fondo al quale si apriva la botola della scaletta a chiocciola, che gli era giunta la voce calma di lei. «Dove vuoi che vada. Scendo da basso, a chiudere.»
Ma Pino, raggomitolato nel suo letto, sente la moglie uscire e si affaccia alla finestra. Lo vede Sciagura, intento a fumarsi una sigaretta mentre l’eccidio si compie.
Dopo la Liberazione si tiene il processo e Sciagura è uno degli imputati, che si dichiara innocente. Viene chiamato a testimoniare Pino ed è qui che la vicenda si intreccia con un altro filo rosso, un altro tradimento si compie:
«Ma un attimo prima che, rispondendo alla domanda del Presidente, pronunciasse con chiarezza, quasi scandendola, quell’unica parola: «Dormivo» […]. Proprio in quell’attimo da parte di parecchi fu veduto distintamente Sciagura rivolgere a Pino Barilari qualcosa come una rapida smorfia propiziatoria. E un ammicco, già, un quasi impercettibile ammicco di intesa.»
Pino Barilari sputa sulla memoria delle vittime asserendo di non aver visto nulla, perché altrimenti sarebbe costretto ad ammettere l’adulterio della moglie.
Nel ’48 Anna chiede la separazione dal marito, stanca di fargli da badante, ma non torna alla casa paterna; bensì da sola in un appartamento a Ferrara. Tempo dopo, ad amici che le chiedono motivo della sua separazione e del suo rapporto con Pino, risponde così, raccontando come è andata quella fatidica notte:
«Dopo averlo messo a letto come ogni sera, lei era uscita di casa sicurissima di poter rientrare di lì a un’ora al massimo […]. Non era passata nemmeno mezz’ora, invece, che era cominciata per le strade quella gran sparatoria, che l’aveva costretta a rimanere nella casa dove si trovava fino alle quattro del mattino. […] Rivedeva ogni particolare della scena come se l’avesse ancora adesso davanti agli occhi. Rivedeva corso Roma tutto vuoto sotto la luna piena, la neve, indurita dal gelo, sparsa come una specie di polvere brillante su ogni cosa […] e i cadaveri, infine, che dal punto dove lei li guardava assomigliavano a tanti fagotti di stracci, e invece erano corpi umani, l’aveva capito subito. […] Era stato a mezza strada, quando, oramai in piena luce, si trovava a cinque o sei metri dal primo mucchio di fucilati, che il pensiero di Pino le aveva attraversato la testa. Allora si era voltata. E Pino era lassù, immobile dietro i vetri della finestra del tinello, un’ombra appena visibile che la guardava. […] Era entrata in casa. Mentre si arrampicava su per la scaletta a chiocciola, cercava di pensare a quello che le convenisse dire. In fondo non le sarebbe stato difficile inventare una balla qualsiasi, comportandosi in modo che Pino ci credesse. Lui in fondo era un bambino, e lei la sua mamma. […] Senonché Pino quella volta non le aveva permesso di inventare nessuna balla. Quando lei era entrata in tinello, non ci stava già più. Stava invece nella sua cameretta, a letto, con la faccia rivolta verso la parete […]. Non una parola, da parte sua, non uno sguardo che le permettessero di capire.»
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