Domare l'uomo, partorire il genio: i diari di Paul Klee
È il ritratto di un domatore la figura che osserviamo delinearsi tra le pagine dei Diari di Paul Klee, editi da Il Saggiatore, tradotti da Alfredo Foelkel e corredati da due prefazioni di lusso, di Argan e Obrist. La belva feroce che l’artista ammansisce è la sua stessa vita: «Mi porti la vita ovunque voglia: credo in me!».
La sfida dell’uomo che addomestica l’eccesso di sé per ricavarne il genio è narrata in tre blocchi temporali, compresi tra il 1898 e il 1918, anno in cui Klee smette di annotare vicende e pensieri e lascia che sia soltanto l’arte a scrivere, a parlare per lui.
Klee è un umanista e questa parola del Cinquecento ci vuole tutta per definire in modo completo un uomo moderno che si destreggia con identica abilità nel disegno, la pittura, la scrittura, la musica, l’architettura. Scrittore magnifico, dai mille registri, capace del cosmico e del comico, dell’intimo e dello straniamento.
«Portavo ancora la gonnella e mi facevano indossare mutande troppo lunghe di flanella grigia, orlata di rosso. Un certo senso estetico doveva già essere desto in me se, quando qualcuno suonava alla porta d’ingresso, mi nascondevo per evitare di essere visto in quello stato».
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Questo ricorda di sé a due-tre anni, con crudele precisione filata di ironia come quelle mutande di flanella troppo lunghe. «Mi consideravo un dissoluto», scrive, senza il timore che pensieri così viscerali sgorgati dall’inchiostro potessero macchiare di bruttura la tela candida su cui pennellava senza sosta quel capolavoro che è il «diventare uomo», prima che artista.
Come scrive Giulio Carlo Argan nella sua prefazione, «dopo aver lette queste pagine, la pittura di Klee ci appare meno avviluppata da quei vapori di favola e di mito».
Il pittore sembra raggiungibile a noi comuni mortali se tiene un diario e vi annota le serate con gli amici, le sbornie, la voglia di varcare il portone di casa di una bella ragazza, i giorni di febbre del figlio, un tramonto su Roma, la stanchezza di una moglie che cresce il suo bambino sola mentre lui presta un lunghissimo servizio militare durante la guerra.
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È l’uomo Klee, però, ad apparirci imprendibile, in questi Diari: il lettore voracissimo (almeno quattro libri al mese); il musicista appassionato (durante la gioventù teneva un concerto quasi ogni sera, suonava vari strumenti); il poeta; il viaggiatore curioso, sensibile, aperto, instancabile; il padre dalla modernità impavida, che assiste la moglie nel parto e fin dal primo vagito del figlio tiene il Diario di Felix, in cui annota gesti, emozioni, sofferenze e dati empirici della crescita del bambino; l’artista-soldato senza boria e senza complessi, che rivernicia le mensole e gli armadi della sede del comando militare.
Un uomo così non è alla nostra portata; la sua scrittura vivace non dà tregua ai lettori, perfettamente al passo, d’altronde, col susseguirsi degli avvenimenti, le scoperte, le riflessioni sulla pittura, la natura, le persone, sé stesso; e poi le aspirazioni, le frustrazioni, che soprattutto nella prima parte dei Diari riguardano non tanto la creazione artistica quanto l’amore e il sesso:
«Spesso sono posseduto dal demonio. L’avversa fortuna sul terreno della sessualità, così irto di problemi, non mi ha reso migliore. L’innocenza mi irrita, il canto degli uccelli mi dà sui nervi, vorrei schiacciare ogni verme che vedo».
L’uomo che ammette in questo modo di avere problemi col sesso appartiene a un altro secolo, a un secolo così futuro che ancora oggi possiamo solo sognare. È così, Klee, godibilissimo nella prosa, nel pensiero, nell’agire, nell’arte.
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Questo è un libro pieno di regali, perché si legge e si guarda, Klee l’ha riempito di disegni, di pentagrammi con le note della sua musica, di schemi con le note delle spese di casa, con la lista delle opere eseguite fino a quel momento e del loro valore sul mercato: manifestazioni della sua arte che non troviamo appese alle pareti di nessun museo.
È un libro che al lettore italiano parla in modo speciale, per quel lungo soggiorno in Italia, avvenuto tra ottobre del 1901 e maggio del 1902, dettato al pittore dalla voglia di purificarsi dalla vita dissoluta che gli sembrava di aver condotto fino ad allora. In Italia l’uomo Klee si placa e il suo genio matura; è grazie a quel viaggio se getta via la bozza di un testamento scritto a vent’anni, dove indicava che ogni sua creazione artistica andasse distrutta subito dopo la sua morte. In Italia conosce Milano (e il risotto), Genova (il fascino di quel porto rimarrà per sempre nei suoi ricordi), Livorno, Pisa (di cui si chiede come abbia fatto il duomo a finire «in quel buco»), Napoli («indolente, sudicia, malata», ma solo lì potrebbe vivere per sempre, scrive), Firenze, che lo inebria col gotico.
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E poiRoma dove, nonostante il freddo dell’inverno, fronteggiato coi mezzi dello spirito («In mancanza di una stufa ho comperato tre litri di Vermut di Torino»), ha modo di osservare l’intera storia dell’arte che lo ha preceduto, di veder recitare la Duse («spirituale ma isterica, morfinomane») e la bella Otero, di ascoltare Donizetti, Rossini, Mascagni, di camminare, camminare sempre tanto, sollevando polvere anche nei giudizi delle opere che vede: la Pietà di Michelangelo per la quale non prova «nessuna impressione»; il colore di Tiziano, che non gli «dice granché», gli sembra «più sensuale che spirituale»; la pittura gotica vista al Bargello, che lo fa «vibrare più dell’arte antica e del Barocco».
Lo sguardo di Klee sulla società italiana è uno spasso, ci dipinge con verità, in tono scanzonato e indulgente.Il periodo trascorso in Italia Klee lo definisce di «ascetismo» e in quella primavera del 1902 riparte per Berna con la gemma fiorita della sua maturazione di uomo e di artista:
«Nel mio intimo, quanto cambiamento! Ho visto vivere un brano di storia. Il Foro e il Vaticano mi hanno parlato. L’umanesimo vuole strozzarmi».
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Al ritorno in Svizzera ora impara «ricominciando interamente dall’inizio, comincio a dare forma come se fossi del tutto ignaro di pittura». C’è umiltà e volontà nell’uomo domato e plasmato; sa però che la concezione della vita si svilupperà «anche in conformità al destino».
I Diari sono pagine piene di stupore, di meraviglia; moti dell’anima a noi ormai sconosciuti, perché viviamo tempi in cui ogni immagine è a portata di clic. A quell’epoca le foto dei quadri erano regali preziosi e per sapere che Goya è «avvincente», che Cézanne è il suo «maestro per eccellenza», che «Carrà, Boccioni e Severini sono buoni, molto buoni» mentre Raffaello lo «lascia indifferente» bisognava recarsi sul luogo, in viaggio di studio, trovare i soldi per farlo, investire più che per frequentare un’Accademia. Dopo l’Italia, l’Accademia di Klee è stata Parigi, e poi la Tunisia, dove approda in aprile del 1914. Lì conosce «la distanza tra la sua incapacità e la natura», ma grazie alla «chiarità colorata sulla terra» si sentirà finalmente pittore:
«Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo».
Al ritorno dalla Tunisia lo chiamano nell’esercito, per prestare un lungo periodo di servizio militare e sui Diari cala la notte della guerra:
«Quanto più è spaventoso questo mondo, come oggi, tanto più è astratta l’arte, mentre un mondo felice produce un’arte dell’al di qua».
Klee racconta allora gli esercizi fisici, le marce, l’intenso scambio di corrispondenza con la moglie, le vaccinazioni, la febbre, gli elmetti ancora sporchi di sangue, tolti ai caduti e mandati alle nuove leve; soffrire il freddo, sparare, pulire il fucile, le licenze per tornare a casa che non arrivano, la fame «Noto che ora non si è mai ben sazi». Ma chiede anche quasi subito che gli mandino la cassa con gli acquerelli, perché c’è sempre un pezzettino di uomo da domare e un genio da partorire, la vita intera è maieutica. L’artista viveva in Germania in quel periodo, a Monaco, anche se la famiglia tra il 1916 e il 1918 preferiva tornare spesso a Berna, e allora lui, soldato, scriveva a casa: «Mangiate anche per me cioccolata e risotto».
Il domatore lavorava spesso sul tavolo di cucina, dove cibo e arte si stringevano in armonia (sono forse cose diverse?), mentre Klee plasmava opere di piccole dimensioni e di grande mistero cosmico, di cui ora questi Diari ci rivelano la vigorosa componente umana.
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