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Docufilm – “Ukraine Is Not a Brothel. The Femen Story” di Kitty Green

Ukraine Is Not a Brothel. The Femen StoryCon Ukraine Is Not a Brothel. The Femen Story  Kitty Green ha girato un documentario intelligente, demitizzante e provocatorio. Nella sua linearità, che non esclude una ben calibrata suspense, il film arriva dritto al cuore, mentre ci guida tra le infinite contraddizioni del “femminismo patriarcale” ucraino.

Probabilmente molti di voi conoscono il fenomeno delle Femen. Sono quelle belle ragazze che se ne vanno in giro nel loro Paese e all'estero a lanciare il grido femminista: «Ukraine is not a brothel» [L'Ucraina non è un bordello]. Le ricorderete forse mentre compiono i loro raid col petto nudo dipinto di scritte nere che non coprono il topless, fiori e nastri colorati nei capelli. Sistematicamente prelevate a forza dalla polizia, sono state anche accusate di reato penale per aver osato suonare le campane della cattedrale di Kiev in segno di protesta contro il divieto d'aborto. È proprio questo, anzi, l'episodio euforico con cui Kitty Greene ci presenta le Femen in azione. Sembrerebbe un inno gioioso alla nascita del femminismo nell'Ucraina meta del turismo sessuale, dove le donne sono comprate e vendute, o si vendono da sé.

La regista di Ukraine is Not a Brothel non ha, purtroppo, potuto mostrarci l'avventura delle Femen nell'«unica dittatura» formale e sostanziale rimasta in Europa, la Bielorussia. Qui viene eletta a luogo della protesta niente meno che la sede del KGB. Il documentario la racconta attraverso una successione di fotogrammi neri: Kitty Green viene arrestata e le sue riprese distrutte; le attiviste vengono trasportate in una foresta, dove sono denudate e picchiate.

Le si vede, invece, in Turchia, chiamate e finanziate dal proprietario di una società di lingerie. Ma poco importa da chi provenga la generosa donazione. Del resto, si sa che il 99% della ricchezza è in mani maschili, o almeno così si difendono le ragazze.

Si è tentati di perdonare alle Femen questa e altre ingenuità, che in realtà sono contraddizioni sgradevoli e un po' disturbanti. In fondo, le giovani utilizzano i mezzi a loro disposizione per scuotere le coscienze di una società patriarcale in cui la maggior parte delle donne non ha mai sentito parlare di femminismo, sostengono le ragazze. Si potrebbe anche essere d'accordo. Non fosse che le contraddizioni aumentano nel corso della narrazione filmica, frutto di un lavoro di ricerca condotto nei 14 mesi che Kitty Green ha trascorso con le Femen, abitando in un appartamento sovietico di due stanze.

Accade anche che, contagiati dall'entusiasmo spavaldo delle impertinenti ucraine, ci si dimentichi dell'uomo che indossa una maschera da coniglio nella prima scena del film. E quasi non si bada, o si vorrebbe non badare, a quel nome, Viktor, pronunciato con fastidio dalle Femen quando l'uomo telefona importuno, mentre loro, serene e allegre, si confidano o agghindano per la prossima azione a sorpresa.

Ma Viktor arriva. La videocamera di Kitty Green ci mostra il volto di un giovane viscido e ambiguo, dallo sguardo sfuggente e acquoso. Sembra mancare di un centro. Veniamo a sapere che è il ragazzo di una delle Femen. Poi lo ascoltiamo parlare con la regista. Riporto un breve e significativo dialogo. Leggendolo, pensate a pause (imbarazzate?) nel poco eloquente Viktor, che sembra cercare le risposte, quando capisce le domande, in qualche slogan o battuta da bar che gli sovvengono in fortunoso aiuto. La Green chiede: «Sei un patriarca che lotta contro il patriarcato. Non è paradossale?». Risposta: «Cosa c'è di paradossale in questo?». Poi ci pensa un po': «Fa parte della storia. Marx era un borghese. È la legge. Le ragazze sono dipendenti psicologicamente. Hanno bisogno di aiuto». Viktor è la mente organizzatrice del movimento femminista ucraino.

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Femen. Ukraine Is Not a Brothel ci racconta la complessità di mondi patriarcali chiusi e ineducati, che è difficile scuotere se non per vie non limpide, colorate di tutte le sfumature del grigio. Con spirito sensibile, acuto e investigativo, Kitty Green ci immerge nella realtà di una nazione che sembra non avere vie d'uscita che non passino attraverso tortuosi compromessi. Ce la racconta attraverso l'effervescenza entusiastica, eccessiva e liberatoria dei raid; spiando la gioia delle Femen nelle cui vene scorrono, forse per la prima volta, motivazione, divertimento, gioia ed energia vitale. Altrimenti, nulla fluisce. Sono confessioni contro muri spogli, in una luce troppo scialba o troppo grigia, bloccata in un'immobilità che deprime come i condomini-alveari sovietici in cui le ragazze abitano, magari guadagnandosi il pane come spogliarelliste. Oppure sono ritratti in gabbia, volti e corpi dietro le quinte di porte e finestre che non incorniciano, ma tagliano spazi e corpi, rinserrano invece di aprire a un'aria libera che, per la regista, in Ucraina ancora non c'è.

Non c'è ancora. Grazie alle Femen qualcosa è accaduto, secondo Kitty Green: «Femminismo non è più una brutta parola. Protesta non è più una brutta parola. Che le persone le amino o le odino, le Femen provocano dibattito e, così facendo, giocano un ruolo importante nella politicizzazione della gioventù in Ucraina».

L'ennesima contraddizione da pagare, che, però, qualche risultato l'ha ottenuto. Le Femen, ex-ragazze semplici e senza prospettive, sono cresciute. Inna ha tagliato il cordone ombelicale con Viktor ed è emigrata in Francia. La sua storia e quella delle altre Femen sta facendo il giro dei festival di tutto il mondo. Qualunque paradosso o imbarazzo rimanga, anzi proprio grazie al fatto che è svelato e discusso, quello di Kitty Green è un documentario “educativo”: è tra i film che insegnano a guardare davvero e a porsi domande; a comprendere senza pregiudizi società patriarcali, reazionarie o dogmatiche, prendendo coscienza delle difficoltà e dei percorsi a volte obbligati attraverso cui, in realtà senza sbocchi, si può cercare di introdurre cambiamenti. Non è secondario che Ukraine Is Not a Brothel inviti a riflettere anche sullo strapotere dei media capaci di mitizzare e degradare nello stesso tempo, e a cui ci siamo talmente abituati da darlo troppo spesso per scontato e volgere altrove lo sguardo, annoiati dalle sue ennesime sarabande.

Per questo credo che i giovani, in particolare, dovrebbero vedere Ukraine Is Not a Brothel. Sono quasi certa che ne nascerebbero interessanti discussioni sui tanti punti caldi toccati dalla Femen Story, e proprio grazie alle scelte registiche della curiosa investigatrice Kitty Green.

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