Docufilm – “Love Hotel” di Philip Cox e Hiraku Toda
Love Hotel è il titolo intrigante e facilmente fraintendibile del documentario presentato in anteprima europea allo scorso Biografilm Festival bolognese e replicato a grande richiesta di pubblico. La coppia di registi Philip Cox e Hiraku Toda, infatti, ha realizzato un film delicato, commovente, ricco di umanità, di empatia e di un sano desiderio di incontrare e conoscere l'altro.
Ribadiamolo, dunque. Di là dal titolo che si presta ad ambiguità, Love Hotel non è per chi cerchi scene pruriginose. Anche perché i love hotel giapponesi non sono case chiuse né i nostri motel da tangenziale. Sono spazi in cui si paga a ore e ci sono stanze a tema, bizzarre e colorate, questo sì. Saranno certo meta delle coppie più stravaganti e improvvisate. Ma non sono queste che vediamo nel documentario di Cox e Toda. Vediamo, invece, un anziano solo che, dopo aver guardato i film erotici proiettati nella sua camera, realizza di non essere stato «abbastanza gentile» con le donne che ha avuto. Incontriamo una coppia matura di media condizione socio-economica che cerca di rivitalizzare il suo rapporto e che, soprattutto, pare scoprire la nudità e trovare il coraggio di parlarsi senza veli solo tra le mura protette di un love hotel. Ci si stupisce di sentire i coniugi, sulla quarantina, chiedersi (per la prima volta? o da quando non se lo domandano?) se vogliono avere un bambino.
Con rispetto, attenzione discreta e sensibilità, Love Hotel ci mostra uomini e donne comuni che a volte non conoscono sé stessi, oppure non sanno comunicare e non sono capaci di vivere l'intimità nel quotidiano. C'è poi anche chi ha un più alto grado di consapevolezza e ha imparato ad accettarsi: se pratica il bondage, è perché ne ammette il bisogno.Si tratta insomma di persone che trovano nel love hotel la possibilità e il coraggio di essere onesti e sinceri con sé e con l'altro, e qualche ora d'aria dal claustrofobico stile di vita a cui li costringe la società giapponese contemporanea.
Il love hotel di Osaka in cui entriamo è, infatti, rappresentativo dei 37 000 esercizi che regalano uno spazio di libertà «mentale oltre che fisico», per usare le parole di Philip Cox, in un Giappone che si è modernizzato senza occidentalizzarsi, ma che deve comunque pagare lo scotto dell'era internet, della globalizzazione e di una civilizzazione in nome della quale si è persa la naturalità. È il Giappone delle liceali prostitute, della dipendenza da internet e dai videogame, del lavoro competitivo e irreggimentato, della riservatezza e della cortesia che diventano formalità alienanti, dei film di Shinya Tsukamoto e dei libri di Ryu Murakami. È lo Stato che sta correndo ai ripari optando per un nazionalismo e un moralismo che prevedono la chiusura dei love hotel. A detta del regista, il documentario intende accendere i riflettori su un'involuzione conservatrice che ricondurrà a un rigido controllo della vita pubblica e privata dei suoi cittadini.
Da questo punto di vista, i love hotel costituiscono un osservatorio privilegiato: sono frequentati da tutti gli strati sociali, perché sono vissuti come una "vacanza" dalle lunghe ore di lavoro, dai soffocanti micro-ambienti delle abitazioni e da una cultura che educa a non esprimere i propri desideri. Così vediamo una coppia di anziani scegliere una stanza “disco” e danzare tra luci stroboscopiche un lento, tra risa di gioia e un po' di stupore e d'impaccio iniziali.
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Qualcuno potrà chiedersi perché registi e produttori abbiano scelto di parlare del Giappone attraverso un love hotel. Credo ci sia stata la volontà di strizzare l'occhio al pubblico più vario. Ma ricordiamo che parliamo del Paese in cui certo Buddhismo, influenzato da principi di matrice tantrica, insegna che è la "via dei sensi" a condurre all'illuminazione; dove lo Scintoismo ha sublimato il corpo, considerato sacro, e definito una follia la castità; dove un rigoroso autocontrollo ha portato alla nascita di luoghi alternativi in cui vivere e sperimentare emozioni e impulsi. Dunque, nella nostra epoca già oltre il postmoderno, il love hotel si presta in modo perfetto a fungere da microcosmo paradigmatico della complessità contemporanea.
Difficilissimo da girare per la volontà dei registi di evitare scadimenti nel voyeurismo, nel solleticamento lascivo o nella derisione volgare, il documentario di Philip Cox e Hiraku Toda è lo specchio di un mondo che gli stessi giapponesi sembrano voler comprendere, forse anche alla ricerca di un ritrovamento di sé nelle schegge di fotogrammi che parlano di solitudine e silenzi. L'ottimo riscontro di pubblico nell'arcipelago nipponico credo ne sia una prova.
Ma c'è di più. Come ha voluto sottolineare la produttrice italiana Giovanna Stopponi, il film tratta temi universali che ciascuno di noi può sentire come propri.
Per questo credo che Love Hotel – non a caso co-prodotto da Giappone, Gran Bretagna e Francia – possa essere una visione salutare per il pubblico di qualunque nazione “ipersviluppata”, purché vi si approcci con sguardo limpido e aperto, senza morbosità, curiosi di esplorare un'umanità che non regge più i ritmi innaturali e alienanti di una società che stabilisce la norma sulla base della produttività economica, della competizione, della ricerca del successo e di una strumentale omologazione, a cui nei love hotel sembra si possa trovare rifugio.
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