Docufilm – “Finding Vivian Maier” di John Maloof e Charlie Siskel
Finding Vivian Maier non è facile. Parola di John Maloof, giovanissimo storico di Chicago e regista, insieme a Charlie Siskel, del pluripremiato documentario presentato nella sezione Best of Fest di Biografilm Festival 2014. E che non sia facile non ci dispiace affatto. Del resto, grazie al nostro fortunato ricercatore, forse già conosciamo quanto basta della fotografa di strada che lo stesso Maloof ha casualmente scoperto nel 2007, quando comprò a una casa d'asta lo scatolone più grande in vendita quel giorno. Alla ricerca di materiali per un suo libro sulla storia di Chicago, non immaginava di trovare uno scrigno di foto e rullini mai sviluppati di un'artista di talento che, nonostante sia ancora snobbata da grandi istituzioni come il MOMA, sta ottenendo apprezzamenti entusiastici da parte del pubblico e di certa critica.
Sullo scatolone c'era solo la scritta “Vivian Maier”. Nessuna notizia su di lei era reperibile su Google. Ma i suoi scatti erano arte. Abituato a scandagliare materiali d'epoca, il ventiseienne Maloof se ne era accorto subito. Ma chi era la fotografa? Lo storico inizia la sua ricerca, di cui il documentario rende conto trasmettendoci tutto l'entusiasmo del ricercatore curioso.
L'«eccentrica», «paradossale» e «riservata» Vivian Maier (così viene definita da chi la conobbe, cioè dalla persone per cui lavorò) fu bambinaia per 40 anni solo perché uscire di casa coi bambini le permetteva di vivere la passione con cui si identificava la sua vita. Li portava a spasso nei quartieri più poveri e pericolosi, e fotografava in continuazione, in modo compulsivo, camminando per le strade della Chicago degli anni Cinquanta e Sessanta.
Al collo le pendeva sempre la Rolleiflex grazie alla quale poteva inquadrare dall'alto e scattare fotografie senza che il suo soggetto se ne accorgesse. Il suo occhio era calamitato dalle persone, che, essendo ritratte dal basso, si impongono con la statura morale e la dignità che sembrano aver perso nella vita. Le foto rivelano, infatti, una comprensione profonda del disagio e della tragedia, ma anche un generoso senso dell'umorismo mai offensivo nei confronti del soggetto: i suoi ritratti sono empatici e pieni di calore. Dotata di un forte senso per le inquadrature, di un’elegante geometria, Vivian Maier fissa volti e corpi che il suo sguardo e le sue cornici abbracciano e proteggono. Sono ritratti di emarginati, derisi, calpestati, o di chi sta svelando la propria anima, a chi sappia vederla, nel riso o nel pianto. A posteriori, possiamo tranquillamente affermare che nelle fotografie di Vivian Maier confluiscono in modo piuttosto originale il «momento» di Cartier-Bresson e l'attrazione verso la marginalità e la devianza alla Diane Arbus.
Vivian Maier è vissuta attraverso la sua Rolleiflex, ma nessuno dei suoi scatti vide la luce finché era in vita, stando a quanto si è recuperato a oggi. Vivian Maier è rimasta una sconosciuta perché lo voleva. Si nascondeva dietro la sua camera come nei suoi immensi cappotti, sotto i suoi cappelli bizzarri e nei suoi vestiti rigorosi e fuori moda. Nascondeva il suo corpo e la sua femminilità come nascondeva le sue origini, di cui si rifiutava di parlare. È Maloof a scoprire che era originaria di New York. Del resto, Vivian Maier giocava con la sua identità: ora è V., ora Viv, ora Vivian; Maier o Meyer, Maiers o Meyers; per gli sconosciuti, la Signorina Smith.
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Tutti pensavano di poter dare per scontato almeno il suo nome. Lo penseremmo tutti delle persone con cui siamo a contatto per anni. Poi chi non vorrebbe fingersi amico o intimo di una persona a cui magari ha pure voluto bene e, soprattutto, i cui lavori postumi stanno ottenendo riconoscimenti? Maloof, che è riuscito a risalire a Vivian Maier grazie a un annuncio mortuario casualmente trovato su Google, si inoltra nel groviglio dei ricordi selettivi e delle interpretazioni contraddittorie fornite dai datori di lavoro della fotografa, ma non riesce a svelare il mistero delle origini di una donna che ha voluto fare terra bruciata del suo passato.
Se il documentario non avesse lo scopo di rendere conto (con intelligenza, anche se con qualche ingenuità) di un percorso di ricerca, si potrebbe pensare a un metadiscorso sulla possibilità di raccontare un'esistenza, causa l'inattendibilità dei testimoni e la complessità di personalità ambigue e mondi interiori danneggiati come quelli di Vivian Maier. Insistendo con le sue interviste, Maloof scopre che la bambinaia che adorava stare coi suoi bambini, era autoritaria e anche abusiva, pronta a scatti di ira folle come a trasalimenti immotivati alla comparsa improvvisa di un uomo.
Vivian Maier era una donna con molti lati oscuri, destinati prima o poi a rivelarsi o a esplodere, costringendola a trovarsi un nuovo lavoro. Una donna sola e nomade, ricca solo degli oggetti ritrovati nella spazzatura o chissà dove e che ammucchiava nelle scatole che erano la sua vita e la seguivano in ogni spostamento. Una donna che voleva essere povera e randagia, ma anche protetta. È quanto esprime la sua fotografia, intrisa della sua storia e della sua identità più profonda.
«Ci sono vite che meritano di essere scoperte» è tra gli slogan di Biografilm Festival. A volte lo meritano anche le opere.Il documentario in cui Maloof ci mostra il suo viaggio di ricerca, include molti degli scatti migliori di Vivian Maier, l'unica certezza sulla fotografa originaria di New York che parlava con uno strano accento francese. Finding Vivian Maier sembra davvero un percorso molto o troppo lungo per essere percorso. E mi viene da pensare che forse non dovrebbe esserlo.
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