“Doctor Copernicus” di John Banville [Traduzione italiana in anteprima]
John Banville, autore irlandese che nel 2005 ha vinto il premio Man Booker Prize con il romanzo Il Mare (pubblicato in Italia da Guanda) ha composto una trilogia, intitolata The Revolutions Trilogy, dedicata alle figure chiave della storia dell'astronomia, Copernico, Keplero e Newton. Il primo volume, intitolato Doctor Copernicus, è l'unico romanzo di Banville ancora inedito nel nostro Paese.
La vita di Niklas Koppernigk, meglio noto come Copernico, la cui opera sconvolse la visione medievale dell'universo aprendo la strada alla formulazione della concezione moderna del sistema planetario, viene evocata dalle suggestive immagini di questo romanzo, che offre il ritratto di un uomo di dolorosa reticenza tormentato dalle cospirazioni che impazzano tutt'intorno a lui e da un'intima ricerca del segreto dell'esistenza. Sarà grazie alle incessanti pressioni del suo unico discepolo, il matematico Joachim Rheticus, che Copernico si convincerà a dare alle stampe il risultato di trent'anni di osservazioni stellari, racchiusi nel suo De Revolutionibus orbium coelestium.
III Cantus Mundi
L’astronomo che indaga i movimenti delle stelle non è per nulla diverso da un cieco. Potendosi affidare al solo bastone della matematica come propria guida, si ritrova a compiere un lungo e interminabile viaggio, irto di pericoli, che si snoda per innumerevoli luoghi di assoluta desolazione. E con quale risultato? Nel suo incedere carico di preoccupazioni, procedendo a tentoni col sostegno della propria staffa e facendo leve su quest’ultima, a tratti urlerà la propria disperazione al Cielo, alla Terra e a tutti gli dei che lo vegliano nella sua angoscia.
Giorno dopo giorno, per dieci settimane, vessato dalla malattia e, ancor peggio, dall’incertezza sulle ragioni delle mie fatiche, lottavo con le tortuosità della teoria di Copernico sui movimenti dei pianeti. Quella seconda lettura del manoscritto si era rivelata molto diversa dalla prima ingannevole occhiata, quando, affascinato dalla sua musica, mi ero catapultato dritto al cuore dell’opera, ignorandone i dettagli con troppa leggerezza. Quei dettagli! Rannicchiato alla scrivania, il capo tra le mani, lottavo furiosamente contro di loro tra lamenti, borbottii, lacrime e risate, che il più delle volte sfuggivano al mio controllo. Ricordo con precisione quanta pena mi costò l’orbita di Marte, signore della guerra. Quel pianeta è una gran troia! Mi ha quasi condotto sull’orlo della pazzia. Un giorno, sconvolto dalla più assoluta disperazione poiché non avrei mai compreso i misteri della sua orbita, mi alzai e presi a correre per la stanza disegnando dei cerchi convulsi, sbattendo ripetutamente il capo contro il muro. Alla fine, quando stavo ormai per perdere i sensi, mi accasciai a terra, il fragore di una risata nelle orecchie, e una voce beffarda – giuro che proveniva proprio dalla quarta sfera – che urlava: Bene, Retico, molto bene! Hai trovato quello che stavi cercando, perché proprio come tu roteavi in questa stanza, ecco, così fa Marte nei cieli!
E come se ciò non fosse abbastanza, trascorrevo le serate, che avrei dovuto dedicare al riposo, in disquisizioni prive di risoluzione, insieme a Copernico, nel tentativo di persuaderlo a pubblicare. Queste battaglie si scatenavano dopo cena, nel salone principale, dove un terzo trono intagliato, posto accanto al focolare, era stato assegnato a me. Dico battaglie, ma sarebbe più corretto parlare di assalti, perché, mentre io attaccavo, Copernico si limitava a trincerarsi dietro le roccaforti di un silenzio tombale, apparentemente intoccabile. La sua figura, grigia e lontana, sedeva raggomitolata tra le pieghe della veste, lo sguardo fisso in avanti, la mascella più tesa di una trappola. Il calore delle fiamme non importava. Lui aveva sempre freddo. Era come se quella temperatura originasse dalle scorie gelide racchiuse nel suo profondo. Solamente quando le mie suppliche si facevano di un’intensità tale da trasformarmi in una furia, quando, sconvolto da un fervore messianico, saltavo in piedi agitando le braccia e gli urlavo addosso le mie più deliranti esortazioni, solo allora la sua stolida difesa cominciava a dare segni di cedimento. Scuoteva il capo a scatti spasmodici, in senso rigorosamente orario, colto da una totale frenesia di rifiuto, mentre il suo ghigno spettrale si allargava sempre più, il sudore gli imperlava le sopracciglia e, simile a una giovanetta che ha pensieri di stupro, faceva capolino sull’orlo dell’abisso nel quale io lo invitavo a lanciarsi, cingendosi con le braccia in un’espressione mista di soddisfazione, panico e assoluto terrore. A volte, si sentiva talmente braccato da giungere a parlarmi, ma solo per gettare un ostacolo sul cammino delle mie impietose richieste, quindi si accertava, ogni volta, di aggrapparsi a un dettaglio insignificante della mia argomentazione, tenendosi ben alla larga dalle questioni che contavano. E poi, quando lo mettevo alle strette dicendogli che era sua responsabilità pubblicare, anche solo per dimostrare gli errori di Tolomeo, agitava un dito tremolante, me lo puntava addosso e urlava:
«Noi dobbiamo seguire i metodi degli Antichi! Chiunque sia convinto che non ci si debba fidare di loro rimarrà per sempre in ginocchio, in lande desolate, al di fuori dei cancelli della nostra scienza, a crogiolarsi nei sogni di quei folli che parlano dei movimenti delle sfere. E otterrà ciò che si merita per aver pensato di poter sostenere le proprie farneticazioni beffandosi degli Antichi!»
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[…]
Alla fine le mie argomentazioni avevano la meglio e, sebbene avvenisse nei suoi modi e, tanto per intenderci, alle sue condizioni, Copernico capitolava. Il primo segnale della sua disponibilità a negoziare lo ebbi una sera in cui, dal nulla, cominciò a farfugliare, tutto emozionato, di un piano, che, disse, avrebbe ottenuto la mia più entusiasta approvazione. Non devo pensare che il suo essere tanto restio a pubblicare le sue modeste teorie originasse da un disprezzo nei confronti del mondo. Infatti, per quanto ne sapessi io (ma lo sapevo veramente?), egli provava un grande amore nei confronti dell’uomo comune, e non aveva nessuna intenzione di lasciarlo nell’ignoranza de rerum natura se c’era un modo in cui poterlo illuminare. E poi, aveva una responsabilità nei confronti della scienza, e del metodo scientifico da affinare. Quindi, con tutte queste cose in mente, mi propose di disegnare delle tavole astronomiche, con nuove regole per tracciare i percorsi delle stelle, uno strumento dal valore inestimabile non solo per gli astronomi, ma anche per i navigatori, i cartografi, e così via. Una volta pronte, le avrei potute portare a Norimberga per la stampa. Tuttavia, avrei dovuto aver ben chiara una cosa: che sebbene quelle tavole computazionali avessero rivelato regole innovative e accurate, non ci sarebbero state dimostrazioni. Egli era ben cosciente del fatto che la sua teoria, sulla quale quelle tavole si sarebbero fondate, una volta pubblicata avrebbe ribaltato quelle nozioni universalmente accettate relative ai movimenti delle sfere, dando vita, di conseguenza, a terribili sollevazioni, e non era preparato ad associare il proprio nome alla causa di simili disordini. Pitagora sosteneva che i segreti della scienza devono essere riservati ai pochi, agli iniziati, ai saggi, e Pitagora era uno degli Antichi, pertanto aveva ragione. Allora, sì alle nuove regole, ma nessuna dimostrazione per sostenerle.
[…]
«Ma Dottore,», disse [Giese, n.d.r.], «queste tavole rimarrebbero un dono incompleto verso il mondo se voi non rivelaste la teoria sulla quale si fondano, come Tolomeo, che voi tenete nel massimo rispetto, si è sempre premurato di fare».
A quelle parole, Copernico, che ancora una volta si era, in maniera sognante, ritirato in se stesso, gli offrì una risposta straordinaria:
«L’astronomia tolemaica non è niente, per quanto riguarda l’esistente, ma è molto utile quando si tratta di calcolare ciò che non esiste».
[…]
«Lasciate che porti il manoscritto, lasciatemi partire per Norimberga. Dobbiamo agire all’istante, o tacere per sempre. Abbiate fiducia in me!»
Non rispose immediatamente.
«Tu dici che mi devo fidare di te, ed è proprio così, io ho piena fiducia in te. Ma il viaggio fino a Norimberga è lungo e pericoloso di questi tempi, e chi può dire che non ti accadrà niente di male? E se dovessi perdere il manoscritto per qualche scherzo del destino, se ti venisse rubato, se lo distruggessero? Allora tutto sarebbe perduto, tutto il mio lavoro. Questo libro racchiude il lavoro di trent’anni».
Cosa tramava? Mi guardava freddo, divertito, mentre io mi dimenavo come un pesce fuor d’acqua in cerca dell’unica risposta corretta al tranello che mi aveva teso. Con la massima cautela, replicai: «E allora ne farò un copia. Del manoscritto. E la porterò con me, mentre l’originale rimarrà in mano vostra. In questo modo, la salvezza del libro sarà assicurata, proprio come la sua pubblicazione. Non vedo ulteriori difficoltà».
«Ma potresti perdere la copia, non credi? E allora che succederebbe? Invece, ecco il mio piano: parti subito per Norimberga, e una volta arrivato scrivi un resoconto del libro. A memoria. Non ho dubbi che tu lo possa fare con facilità. E poi pubblicherai quello».
«Ma è già stato fatto!», urlai. «Voi stesso ne avete fatto un resoconto, nel Commentariolus»
«Quello non era niente. Peggio che niente, pieno di errori. Tu ne devi scrivere una versione accurata. Indubbiamente vedi i vantaggi che porterà a entrambi: il tuo nome acquisterà visibilità nel mondo della scienza, mentre si aprirà la via a una futura pubblicazione della mia opera. Tu diventerai una specie di ... Giovanni Battista, colui che precede».
Aveva vinto. Lo sapeva. Chinai il capo, a indicare la mia sconfitta.
«E va bene», dissi. «Redigerò questo resoconto, se ne avrò la capacità».
Disse: «È un progetto stupendo, credo. Sei d’accordo?»
«Sì, sì – ma voi, quando pubblicherete il De Revolutionibus?»
«Tutto considerato, non vedo la necessità di pubblicarlo, se tu mi assicuri che il tuo resoconto sarà sufficientemente comprensivo».
«Ma il vostro libro? Trent’anni?»
«È inutile»
«E voi intendete ...?»
«Distruggerlo»
«Distruggerlo?»
«Ma certo»
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