Divagazioni shakespeariane, alla scoperta del “Titus Andronicus”
In questo periodo di sospensione e di stallo, nella mente del lettore anglofilo – come la sottoscritta – si forma un unico, malatissimo, pensiero: sembra proprio di essere ai tempi di Shakespeare! Durante l’epoca elisabettiana e giacobina (XVI-XVII secolo), infatti, i teatri e i luoghi di aggregazione venivano chiusi anche per anni interi per far fronte alle improvvise – e ahimè frequenti – epidemie di peste, tifo & co. Lo sa benissimo Shakespeare che nel 1594 compone e mette in scena il Titus Andronicus. Si tratta di una delle sue prime tragedie e, indubbiamente, una delle più cruente, tanto da essere stata classificata come “tragedy of horror”. Il dramma, inoltre, detiene un altro curioso primato, ovvero quello di essere protagonista di una storia – o unafterlife, come si dice adesso – assai curiosa. Sembra doveroso, dunque, proporne una piccola esplorazione.
Come si è accennato, Shakespeare scrive il Titus intorno al 1594 per il Rose Theatre di Philip Henslowe, noto impresario londinese. Erano tempi duri per i teatranti. Tra il 1592 e il 1594, i teatri vengono ripetutamente chiusi in seguito a contrasti con le autorità cittadine e, soprattutto, a causa di epidemie. Ma ecco un barlume di speranza: nei primi mesi del 1594 i teatri vengono riaperti per un brevissimo periodo e Shakespeare inserisce nel repertorio del Rose un nuovissimo dramma dall’altisonante titolo di THE MOST LAMENTABLE ROMAN TRAGEDY OF TITUS ANDRONICUS.
L’opera ottiene immediatamente un successo enorme e continuerà a farlo per anni, tanto che nel 1614 Ben Johnson, popolare drammaturgo e amico/rivale di Shakespeare, la nomina nel prologo del suo Bartholomew Fair (in italiano, La Fiera di San Bartolomeo) ricordandone la fama – con una malcelata punta di invidia. Il Titus, inoltre, è l’unico dramma shakespeariano che viene stampato contemporaneamente in Inghilterra, Germania e Olanda, dove viene anche messo in scena più volte, tanto che nel 1726 se ne contano ben ventotto edizioni.
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Normalmente tale livello di popolarità implicherebbe una qualche sorta di riconoscimento analogo dalla critica. Ma non è questo il caso: il Tito Andronico, infatti, è stato ripetutamente massacrato dalla critica nel corso dei secoli. Samuel Johnson, ad esempio, pensava che fosse un’opera di «cattivo gusto» per le ripetute mutilazioni in scena e per l’implacabile black humour che contorna le scene più violente. T.S. Eliot, ancora, la definì «one of the stupidiest and most uninspired plays ever written» (una delle opere più stupide e banali mai scritte). Negli anni ’50 Peter Brook – che ne curò uno straordinario e raro adattamento per la Royal Shakespeare Company con attori del calibro di Laurence Olivier e Vivien Leigh – scrive, stupito, sul «Sunday Times» di come la stampa gli abbia dato ottime recensioni, nonostante l’opera fosse giudicata “dreadful”, tremenda.
Non stupisce, dunque, che anche registi e compagnie nel corso del tempo siano stati più che restii nel mettere in scena nuove versioni del Tito Andronico. Questo non vuol dire, però, che non ce ne siano state. Anzi, straordinariamente, ogni volta che viene infusa nuova vita a questo testo ecco che ritorna magicamente agli antichi splendori, registrando un successo dopo l’altro. È il caso, ad esempio, del sopracitato Peter Brook, ma anche di Deborah Warner che, negli anni Ottanta del secolo scorso, mette in scena un adattamento della tragedia con protagonista Brian Cox.
Cos’è, dunque, che lo fa funzionare e non funzionare allo stesso tempo? Per capirlo, dobbiamo dare uno sguardo rapido alla trama, o quantomeno alla situazione di partenza.
Tito, generale romano di grande fama, ritorna a Roma dopo una logorante guerra contro i Goti. Tra i suoi prigionieri ci sono la regina dei Goti, Tamora, e i suoi tre figli, Alarbo, Demetrio e Chirone. Ad accompagnarla c'è anche l’amante della regina, Aronne, un Moro. Tito ha perso molti figli in guerra e per onorarli al meglio, Lucio, uno dei tre figli superstiti di Tito, suggerisce un sacrificio umano. Presto fatto: si decide disacrificare Alabardo, il primogenito di Tamora. La fiera regina prova a supplicare il generale romano, ma senza successo: Alabardo viene sacrificato agli déi senza pietà. Nel giro di poche pagine Shakespeare getta le fondamenta del conflitto e imposta il mood della tragedia con una buona dose di violenza fisica (e psicologica). Senza leggere oltre, infatti, sappiamo che Tamora avrà la sua vendetta e che non starà lì buona ad accettare il suo destino. Qualcosa di grosso sta per succedere. Tito non fa in tempo a salutare come si deve i suoi figli che gli si presenta davanti un bel problemone di natura politica: l’imperatore è morto e i romani – rappresentati qui da Marco Andronico, fratello di Tito – vogliono dare la corona a Tito. Lui, però, la rifiuta e raccomanda Saturnino, invece, il figlio maggiore del defunto Cesare. Saturnino, colmo di gratitudine, decide di fare di Lavinia – unica figlia femmina di Tito – la sua imperatrice. Ma attenzione! La bella e mite Lavinia è promessa sposa di Bassiano, fratello di Saturnino, il quale si oppone alla decisione del neoimperatore e, supportato dalla stessa fanciulla e dai fratelli di lei, la rapisce scatenando l’ira funesta di Tito che, senza pensarci due volte, fredda uno dei suoi figli ribelli. Saturnino, allora, libera Tamora e i suoi figli, dichiarando che preferisce sposare la regina dei Goti. Tamora può, dunque, iniziare a progettare la vendetta contro Tito e tutta la sua famiglia e che, inevitabilmente, porterà anche lei alla rovina.
Tutto questo (e molto altro) accade solo nel primo atto. Nei quattro atti successivi assistiamo a mutilazioni, stupri, omicidi, pazzia e atti di cannibalismo contornati da momenti di sublime e scioccante poesia. Questi ultimi elementi sono, senza ombra di dubbio, ciò che ha fatto storcere il naso maggiormente ai critici nel corso dei secoli. Tuttavia, nella sua volontà di affrontare la violenza, spesso in modi che sono allo stesso tempo scioccanti e scherzosi, la nostra cultura assomiglia più a quella degli elisabettiani che a quella del Dr. Johnson. Prendiamo una delle scene più importanti e cruente del secondo atto, la scena quarta. Chirone e Demetrio scherniscono Lavinia dopo averla violentata e dopo averle mozzato la lingua e le mani:
DEMETRIO – Ed ora, bella, vallo a raccontare, se la tua lingua può parlare ancora, chi te l’ha mozza e chi t’ha violentata.
CHIRONE – E se i tuoi moncherini ti consentono di fare la scrivana, scrivi quello ch’hai in mente, e comunica agli altri il tuo pensiero.
DEMETRIO – Guarda come riesce, tuttavia, con segni e gesti a fare scarabocchi!
CHIRONE – Ora vattene a casa, chiedi d’aver dell’acqua profumata, e ti lavi le mani.
DEMETRIO – Che chiede, che si lava? Non ha lingua per chiedere, né mani da lavare. Lasciamola al suo muto passeggiare.
CHIRONE – Al suo posto, m’andrei ad impiccare.
DEMETRIO – Sì, se avessi le mani per annodarti il cappio della corda!
Pare che il pubblico elisabettiano fosse particolarmente divertito da questo tremendo scambio di battute alle spese della povera Lavinia. E non sono del tutto convinta che oggi le cose andrebbero diversamente. È quel famoso black humor, di cui abbiamo già accennato,che tanto ci piace e che è fonte inesauribile di meme e immagini più o meno divertenti e, allo stesso tempo, sgradevoli che invadono continuamente i social network. Sappiamo, inoltre, che il Rose Theatre si trovava vicino a un mattatoio, quindi quasi sicuramente Henslowe si sarà procurato sangue vero per “impreziosire” e animare il tutto.
È possibile, dunque, che gli spettatori si sentano un tantino a disagio per il modo in cui l’opera sviluppa il tema della vendetta nei suoi aspetti più morbosi e sanguinosi, ma i frequentatori del teatro, che spesso sono anche appassionati di cinema e serie tv, conoscono bene questo tipo di materiale. Quella del Titus Andronicus, insomma, è una sceneggiatura degna dell’intrattenimento in voga ai giorni nostri e diventa difficile, a questo punto, non pensare alle assonanze con serie e film di successo come Gomorra o a Suburra. Il meccanismo è lo stesso: personaggi repellenti (siamo onesti) che però ci tengono incollati allo schermo, o alla pagina nel nostro caso, e ci fanno in qualche modo, se non empatizzare, quanto meno partecipare alle loro vicende in modo coinvolgente. Questo meccanismo non lo ha certo inventato Shakespeare, lo ritroviamo infatti nelle opere di moltissimi altri autori elisabettiani.
Sappiamo, infatti, che per scrivere il Titus Shakespeare attinge al repertorio teatrale dei primi anni Novanta del 1500. Oggi potremmo parlare di plagio, ma un tempo non esistevano diritti d’autore, anzi, più uno era bravo a “scopiazzare” e reinventare, più il suo prestigio aumentava. Si tratta di contaminatio, come la chiamavano già i Romani e a cui noi, forse, associamo il termine adattamento o trasposizione. Shakespeare è un vero maestro in questo. Qui lo vediamo, infatti, reinterpretare e trarre ispirazione da Christopher Marlowe, autore, tra le tante, del Doctor Faustus (1590)e The Jew of Malta (1589). Ciò che Shakespeare “prende in prestito” da Marlowe, in particolare, sono i villains, gli antagonisti, i cattivi per eccellenza. Ma questi cattivi condividono anche le caratteristiche dell’eroe, sono l’incarnazione estrema del self-made-man rinascimentale. Moralmente parlando, sappiamo che dovremmo disprezzarli e condannarli, ma drammaticamente ne siamo ipnotizzati. È il caso del personaggio di Aronne il Moro, lo spietato amante della regina Tamora. Chi ha un po’ di dimestichezza con le opere di Shakespeare, non faticherà a riconoscere in lui Edmund (Re Lear), Iago e Otello (Otello), ma anche il Faust e Barnabas di Marlowe. Guardiamo l’ultimo disarmante discorso di Aronne. Siamo nel quinto atto, Lucio lo ha appena condannato a una morte lenta e dolorosa ed ecco cosa risponde il Moro:
Un bambinello non sono, da pentirmi con preghiere e vili piagnistei di tutti i mali che ho consumato. Diecimila ancora, e ancor peggiori ne commetterei, potendo agire a pieno mio talento. E se una buona azione, anche una sola, possa mai aver fatto in vita mia, d’essa mi pento dal fondo dell’anima.
Questo è il primo esempio di grande monologo che Shakespeare fa pronunciare a un villain ed è impossibile non pensare anche a Riccardo III, protagonista dell’omonima tragedia – che Shakespeare scriverà da lì a poco – e ulteriore prova del genio del Bardo. Altre analogie tra i personaggi le possiamo trovare in Tamora, che ricorda Lady Macbeth, Tito e Re Lear, ma anche Lavinia che ci rimanda a Lucrezia, protagonista del poema narrativo The Rape of Lucrece, che Shakespeare scrive sempre nel 1594.
A proposito di contaminatio, l’altra grande fonte di ispirazione per il Titus proviene da Thomas Kyd – popolare drammaturgo, conosciuto principalmente per The Spanish Tragedy (1587) che sarà annoverata anche tra le principali fonti di Hamlet (1609). Da Kyd, Shakespeare prende il tema della vendetta e delle mutilazioni sanguinolente in scena che tanto piacevano al pubblico del tempo, come abbiamo già accennato, e che hanno indotto numerosi critici contemporanei a leggere il Titus Andronicus come un antenato del genere thriller e – perché no? – anche del genere splatter. Ma limitarsi a interpretare il Titus in questo modo vorrebbe dire fare un torto grandissimo a un’opera che in quanto a liricismo e a tematiche somiglia più al Re Lear che a un banalissimo film horror. La scena successiva allo stupro e allo scherno di Lavina, infatti, si conclude con uno dei momenti poetici più importanti del testo, quando Marco trova la nipote così orrendamente mutilata e si lascia andare al più elevato liricismo che ricorda i migliori sonetti di Petrarca. Ne riportiamo qui un estratto:
Se sogno, tutto quello che posseggo per essere svegliato! Se son desto, mi fulmini un pianeta, perch’io possa dormire un sonno eterno! Parla, nipote mia gentile, dimmi: quali mani spietate ed inumane t’han così macellata e mutilata, t’hanno nudato il corpo di quelle sue due rame deliziose, di quei dolcissimi suoi ornamenti sotto il cui cerchio d’ombra molti re han cercato di dormire, e non avebbero potuto avere, in verità, felicità sì grande quanta è sol la metà dell’amor tuo? Parla, dunque, perché non mi rispondi? (S’accorge anche della lingua mozza) Ah, che dalle tue labbra di cinabro, coll’andare e venir del tuo respiro vedo sgorgare sangue, un rosso fiotto, simile allo zampillo d’una fonte che gorgoglia con lo spirar del vento! (…) Dovrò dunque parlare io per te? Devo dir io per te quello che vedo? Ah, potessi conoscere il tuo cuore! E sapere chi è stata quella belva, per potermi sfogare a maledirla! Il dolore nascosto, come un forno che brucia in cenere quando è tappato, incenerisce il cuor che lo racchiude.
Un monologo assai problematico da mettere in scena perché si fa veramente fatica a capirlo fino in fondo, soprattutto se ragioniamo in termini di realismo e verosimiglianza. Chi mai userebbe la poesia per descrivere un atto tanto orribile? Non stupisce, dunque, che molti registi abbiano scelto di eliminare completamente il monologo di Marcus – Peter Brook trasforma la scena in un silenzioso tableau - o di effettuare numerosi tagli.
Alcuni studiosi hanno riconosciuto, inoltre, delle particolari affinità con Romeo and Juliet, che il Bardo scriverà intorno al 1595, nel modo in cui tutti i protagonisti vengono coinvolti all’interno della spirale violenta che mira alla vendetta e nel ritratto di una società fuori controllo in cui non valgono più nemmeno i legami con la propria famiglia. Esemplare, in questo caso, è il primo atto in cui vediamo Lavinia e i suoi fratelli schierarsi dalla parte di Bassiano e andare contro il loro padre, così come vediamo Tito non esitare e uccidere il figlio senza pietà. Il Titus Andronicus, dunque, non parla solo di vendetta e sangue, è anche la storia di una famiglia e dello scontro inevitabilee con tematiche e valori quali onore, orgoglio e del rapporto tra individuo e società. La Roma del Titus è una Roma che si fa fatica a riconoscere storicamente parlando, ma che presenta tutte le problematiche della società a noi contemporanea. Fin da subito ci è chiaro che non può esserci un futuro glorioso per Roma, così come non può esserci un futuro glorioso per Tito e la sua famiglia.
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La critica shakespeariana, lo abbiamo ormai intuito, sa essere veramente spietata nel giudicare le opere del canone, specialmente di quelle scritte tra il 1592 e il 1596 – i cosiddetti “anni di apprendistato” in cui Shakespeare inizia la carriera del drammaturgo. Questi primi drammi sono stati spesso trascurati e sminuiti dalla critica, proprio perché scritti da uno Shakespeare “giovane”, uno Shakespeare “in potenza” che si deve ancora perfezionare. Ma è proprio questo il punto di forza di questi testi. Occorre tenere a mente che le prime fasi della carriera di Shakespeare sono fasi in cui l’autore sperimenta e affina la tecnica, in cui spazia tra i generi ed inizia ad esplorare a fondo l’animo umano. Non facciamoci ingannare, dunque, dalle apparenze. Immergiamoci e lasciamoci incantare dal Titus Andronicus e dagli altri “esperimenti shakespeariani”. Avremo così occasione di sbirciare più da vicino dentro quel processo creativo che ha guidato colui che è universalmente riconosciuto come il più grande drammaturgo di tutti i tempi.
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