Divagazione shakespeariana #7 – Perché non bisognerebbe mai “spiegare” King Lear
“– Sto rileggendo King Lear, sai? Ne avevo bisogno, è una delle mie preferite in assoluto”
– Ah ottimo! E perché?”
– ……”
Il vuoto siderale.
Questo è un piccolo estratto di una conversazione avuta di recente e che mi ha spinto ad avventurarmi in un territorio più pericoloso di un campo minato, più letale del veleno di un mamba nero e più frustrante di un pomeriggio passato all’Agenzia delle Entrate. In altre parole, dedicare questa settima divagazione shakespeariana al King Lear. Un dramma che ha letteralmente fatto la Storia del teatro occidentale (e non) e che a distanza di oltre quattro secoli continua a influenzare la drammaturgia contemporanea. Un mostro sacro che tutti conoscono o, quantomeno, di cui tutti hanno sentito parlare e rispetto al quale tutti sono in soggezione.
Nel 1961 Jan Kott scriveva che il «King Lear fa l’effetto di un’immensa montagna che tutti ammirano, ma nessuno ha voglia di scalare troppo spesso». Ventisette anni dopo, Harold Bloom alzava direttamente le mani nell’affermare che King Lear «sfugge a qualsiasi commento» perché presenta «un’estensione infinita che trascende forse i limiti della letteratura», arrivando persino a paragonare il testo shakespeariano a quello del Vangelo di Marco. C’è chi sostiene anche che King Lear sia l’incubo ricorrente di ogni attore e regista, perché in grado di mettere in crisi profonda chiunque si avventuri in una sua ipotetica messinscena. Il mio vuoto siderale, dunque, non è poi così fuori luogo: anche solo tentare di parlare del King Lear in modo razionale e ragionato è una tortura.
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In psicologia, il test di Rorschach viene usato per cercare di indagare più a fondo sulla personalità del paziente. Il soggetto osserva una serie di macchie di inchiostro di vari colori e dimensioni e prova a darne un’interpretazione facendo inconsciamente leva sul proprio vissuto emotivo. Le probabilità di dare due interpretazioni identiche della medesima macchia sono elevate quanto quelle di trovare punteggiatura nell’Ulysses di Joyce. La stessa cosa accade con King Lear: se lo leggete o vedete ora e poi ripetete l’esperienza tra qualche anno, state pur certi che rimarrete folgorati da cose differenti.
Tra tutti i testi di Shakespeare, infatti, King Lear è quello che suscita, anzi, esige una reazione più viscerale, emotiva ed empatica. A dirla tutta, viene molto difficile empatizzare con il protagonista (se è davvero Lear il protagonista, ma anche qui sta a noi deciderlo): il vecchio re ci sembra uno squilibrato ancor prima che lo diventi seriamente. A quale padre verrebbe mai in mente di chiedere alle sue figlie di quantificare il bene che provano per il loro vecchio? Nessuno. È pedagogicamente scorretto, Rousseau perderebbe tutti i suoi riccioli cotonati dallo sgomento. Neanche Don Vito Corleone è mai arrivato a tanto. La tragedia era inevitabile. Eppure, bastano poche pagine a far sì che i tormenti di Lear diventino anche i nostri, di tormenti, e il tutto viene ulteriormente amplificato da un’aura quasi mistica, primordiale che è in grado di scuotere gli animi di questo nostro cinico ventunesimo secolo.
«Soffiate, venti, e rompetevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e uragani, eruttate finché non avrete sommerso i nostri campanili e annegato i galli sui tetti! Voi fuochi sulfurei, e veloci più del pensiero, voi avanguardie di fulmini che fendono le querce, bruciate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, infrangi di stampi della natura, distruggi tutti i semi che fanno l'uomo ingrato!»
Chi non si è mai sentito così? Chi non ha mai voluto imprecare invocando l’universo affinché risolvesse magicamente tutti i nostri affanni? Se poi pensiamo che Lear pronuncia queste maledizioni in mezzo alla brughiera inglese, diventa tutto ancora più suggestivo. È un po’ il sogno di ogni essere umano esasperato dall’esistenza.
La trama di King Lear la conosciamo tutti, ma se a un primo sguardo ci sembra relativamente semplice (rispetto al resto della produzione shakespeariana) e con pochi personaggi, scopriamo presto che è tutto un barbatrucco: King Lear nasconde un’infinità di livelli di interpretazione da far impallidire chiunque. Ecco perché, ad esempio, se ci sentiamo particolarmente inclini verso i conflitti famigliari, un dramma come King Lear può aiutarci a esorcizzare le nostre frustrazioni. Potremmo apprezzare particolarmente le scene tra Lear e Cordelia, oppure potremmo sentirci vicini a Edgar, campione mondiale della iella suprema. Un’altra volta ancora potremmo indignarci per la crudeltà di Goneril e Regan, o maledire la sorte per non avere accanto a noi, come Lear, un Matto in grado di parlare alla nostra coscienza.
Se poi siamo facilmente suggestionabili e ci piacciono i bad guys (salutiamo Billie Eilish protagonista di questa interferenza) o i villains, come si dice in gergo, qui possiamo trovare l’antagonista meglio riuscito, a mio modesto parere, del canone shakespeariano: Edmund. Un personaggio che ricorda terribilmente Iago di Othello e Aronne del Titus Andronicus e allo stesso tempo li supera entrambi in perfidia, astuzia e parlantina. Più affascinante di Tommy Shelby dei Peaky Blinders, più spietato di Samurai di Suburra, Edmund è il regista che sta dietro alle principali disgrazie di tutti gli altri personaggi. Perché lo fa? Perché è fatto così, ne è perfettamente consapevole e non ha intenzione di cambiare. Già nel suo primo monologo ci tiene a comunicarci che questa storia di dare la colpa dei nostri peggiori comportamenti al destino, alla sfortuna, a una serie di circostanze poco favorevoli è una gran baggianata. Lui è un figlio illegittimo e, secondo quanto si credeva all’epoca di Shakespeare, malvagio per natura, eppure ci tiene a precisare che «Cristo! Sarei stato quel che sono anche se a far l’occhiolino alla mia bastardaggine fosse stata la stella più virginale del firmamento.» Lo accettiamo, Edmund, lo accettiamo. Anche noi ne abbiamo le scatole piene di etichette finte e ipocrisia.
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Ce n’è per tutti i gusti, insomma e ribadire ancora una volta l’incredibile universalità di un autore come William Shakespeare è superfluo, per non dire banale. Ma se non ne siete ancora convinti, King Lear potrebbe farvi cambiare idea in modo definitivo. Ecco perché è così difficile da spiegare, ecco perché King Lear andrebbe eliminato da tutti i manuali scolastici, salvo poi essere inserito tra le letture obbligatorie per conseguire la maturità. Non si può spiegare King Lear: lo si può solo leggere, guardare rappresentato e poi discuterne perché la cosa importante, come per tutte le opere di Shakespeare, è la nostra interpretazione.
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