Divagazione shakespeariana #6 – “Measure for Measure”, quando Shakespeare divenne Emo
Ah, l’adolescenza! Quei favolosi anni di transizione in cui non ci sente più dei poppanti, ma nemmeno così adulti da mettersi in carreggiata. «I’m not a girl not yet a woman», si sgolava Britney Spears nel 2001, ed è proprio così. È il periodo delle domande esistenziali, degli sbalzi d’umore e talvolta anche di quei repentini cambi di look che sanno mutare il più amabile dei pargoli in una creatura quasi mitologica. Se anche voi avete vissuto adolescenza e preadolescenza nei primi anni Duemila ricorderete, ad esempio, quei curiosi esemplari di giovinetti dalle lunghe frange piastrate, abbigliamento simil punk-rock e un entusiasmo per la vita paragonabile a quello che tutti noi proviamo ogni volta che facciamo code chilometriche alle Poste. Ricorderete sicuramente anche gruppi musicali come i Tokio Hotel, i Cinema Bizzare o i dARI. Stiamo parlando della cultura Emo, che nasce come movimento musicale negli anni Ottanta per poi divenire una vera e propria subcultura giovanile che è andata scemando nel tempo. La cultura Emo si distingue per il suo carattere particolarmente emotivo-emozionale, in cui spesso si riscontrano tendenze nichilistichee malinconiche. Ed è proprio di questo che andremo a parlare in questa sesta divagazione shakespeariana, perché con Measure for Measure (1604) William Shakespeare si candida direttamente al ruolo di “primo Emo della Storia occidentale”.
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Prima regola di ogni subcultura che si rispetti: sconvolgere le masse. Qui William fa centro alla grande perché Measure for Measure è un’autentica bomba a orologeria. La commedia è talmente piena di elementi irriverenti e anticonvenzionali che, conoscendo i tempi, ci stupiamo di come Shakespeare non sia finito in gattabuia. Più di qualsiasi altra opera shakespeariana, infatti, Measure for Measure coinvolge e sconvolge il pubblico in quella che Harold Bloom chiama «l’evocazione e l’evasione simultanea del drammaturgo dalla fede e dalla morale cristiana», tanto per dirne una. Già nel titolo possiamo trovare un chiaro riferimento evangelico: “Misura per Misura” non è altro che una parafrasi di un passaggio del celebre discorso della montagna: «Con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio». Si parlerà di giustizia, dunque, dove sta l’empietà? Dove sta la trasgressione?
Tanto per cominciare, qui la giustizia si spoglia di ogni nobile accezione per tradursi in un susseguirsi di vendette, ripicche e ritorsioni. In una Vienna dal clima sereno quanto la Birmingham della serie Tv Peaky Blinders e in cui fornicazione e generazione di figli illegittimi prevedono la pena capitale, il giovane Claudio è in prigione e rischia di rimetterci la capoccia per aver infranto la legge: ha ingravidato la sua amante prima del matrimonio. A condannarlo è stato Angelo, attuale governatore della città, il quale da buon bigottone ipocrita non solo vuol fare di lui un esempio, ma fa chiudere tutti i bordelli e avanza una simpatica “proposta indecente” a Isabella, sorella di Claudio e in procinto di diventare suora. Angelo in realtà è in carica solo temporaneamente. Il vero Duca, Vincenzo, ha deciso di prendersi una vacanza dalla realtà e andarsene in giro per Vienna all’insaputa di tutti travestito da frate, riuscendo così a manipolare personaggi e a intrappolare Angelo nella sua stessa malatissima rete di giustizia (spoilerone). E vissero tutti (in)felici e (s)contenti perché alla fine qui si parla di commedia, ma di comico ha ben poco.
Prostitute e papponi inferociti, ubriaconi e assassini si accompagnano a suore e frati in questa assurda, assurda vicenda. Per ritornare al titolo, più che di giustizia in senso elevato, qui si parla di legge del taglione. “Misura per misura” equivale un po’ a “occhio per occhio, dente per dente”: la testa di Claudio per la verginità della sua amante, lo stratagemma del Duca per incastrare Angelo dopo l’attacco all’inespugnabile castità di Isabella e chi più ne ha più ne metta. Forse Shakespeare avrebbe potuto intitolare la commedia “Occhio per occhio”, ma in questo modo il testo avrebbe perso tutta quell’aura di potenziale trasgressione data dal titolo pseudo biblico.
Ecco, dunque, alcuni spunti per sconvolgere le masse (almeno a quel tempo). Quali altri tratti comuni condividono Measure for Measure e la cultura Emo?
Una delle caratteristiche principali dei ragazzi Emo, come abbiamo accennato prima, era l’atteggiamento cupo, depresso e una costante e professata ricerca ed esplorazione della propria emotività, salvo poi mostrare un certo distacco nei confronti del mondo esterno. La stessa atmosfera domina Measure for Measure: il dramma è estremamente moderno nel suo rifiuto di ogni forma di sentimentalismo e protagonismo, senza nemmeno provare a farci la morale. Non possiamo parlare di un vero protagonista perché lo sono tutti e allo stesso tempo non lo è nessuno. Shakespeare ci propone un accenno dell’individualità di ognuno senza entrare troppo in profondità e lasciandoci estremamente perplessi anche nei confronti di personaggi apparentemente inattaccabili come Isabella o il Duca.
Stephen Greenblatt chiama questa particolare strategia di cui Shakespeare sembra essere un grande fan “strategic opacity”: Shakespeare sarebbe volutamente ambiguo, strategicamente opaco perché consapevole di tenere, in questo modo, i suoi spettatori (e anche noi lettori) in pugno. Uscendo dal teatro o voltando l’ultima pagina del testo stampato noi abbiamo accumulato una quantità enorme di domande che, di fatto, non hanno risposta. Qui, per esempio, ci chiediamo, invece, perché il Duca alla fine voglia sposare Isabella di punto in bianco e soprattutto perché lei non dica niente. Lo stesso meccanismo lo possiamo trovare in altre opere più celebri come Othello (perché Iago odia il Moro?) oppure in King Lear (perché Lear mette alla prova le sue figlie?) e prima ancora in Hamlet (cosa aspetta Hamlet a vendicare concretamente suo padre?). È logorante e assolutamente disturbante, peggio di un finale aperto. Però ne siamo indubbiamente attratti.
Come esempio finale di questa mia stravagante assonanza tra Shakespeare e gli Emo, vorrei citare il dialogo tra il Duca e Claudio nel secondo atto, quando questi si trova in prigione ed è convinto di morire di lì a poco:
CLAUDIO: Io spero di vivere, ma a morire sono preparato.
DUCA: Fissati sulla morte: ché vita e morte saranno più dolci. Ragiona così con la vita: se io dovessi perderti, perdo una cosa che solo gli sciocchi vorrebbero tenersi. Sei un alito, soggetto agli influssi del cielo che infestano questa dimora dove abiti ad ogni ora. Sei solo il buffone della morte, che con la tua fuga ti sforzi di evitare, eppur le corri sempre incontro. Non sei nobile, perché tutti gli orpelli che hai addosso nascono dal fango. Non sei affatto impavida perché temi il morbido e tenero morso di un serpentello. Trovi miglior pace nel sonno, che spesso provochi, ma stupidamente temi la morte che non ne è di più. Non sei te stessa: perché esisti sui mille e mille granellini che vengon dalla terra. Non sei felice, perché ti danni per ottenere ciò che non hai, e quel che hai, lo scordi. (…) Non hai né gioventù né vecchiaia, ma come un sonnellino dopo pranzo, che sogna d’entrambe: la tua beata gioventù incanutisce e méndica ai vecchi paralitici, e quando ti sei fatta annosa e ricca non hai calore, passione, agilità o bellezza per rendere piacevole la tua ricchezza. Cos’è allora che merita il nome di vita? In essa si celano più di mille morti; eppure noi paventiamo la morte, che tutte queste disparità pareggia.
Non ci è difficile riconoscere anche qui la vena malinconica e distaccata a cui si è fatto cenno poco fa. Questa commovente litania di sofferenze così squisitamente scritta riuscì a smuovere l’animo duro e frigido del grande Dr Samuel Johnson e fece scendere qualche lacrimuccia anche a T.S. Eliot(altro grande Emo in potenza, se vogliamo dire le cose come stanno…). In “pochi” versi Shakespeare riesce a esprimere tutta la malinconia della vita non vissuta e quel «Che cos’è che merita il nome di vita?» non può che risuonarci prepotentemente nella testa. Ascoltatevi una qualsiasi canzone dei Tokio Hotel: magari la poesia non sarà la stessa, siamo d’accordo, ma possiamo ritrovarvi la stessa carica emotiva, la stessa tristezza e la stessa nota disperata di questi versi.
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Se vogliamo dirla tutta, come Emo Shakespeare è un tantino anticonvenzionale: non solo in materia di look (anche se quella gorgiera che vediamo in quasi tutti i ritratti di William ha un nonsoché di punk rock!) o in materia di epoca storica, ma anche dal punto di vista anagrafico. Quando scrive e mette in scena Measure for Measure, Shakespeare non è più un giovinastro: siamo nel 1604 e il nostro drammaturgo ne ha le scatole piene di scrivere commedie e si sta avviando verso il periodo delle sue grandi tragedie. E si vede. Il testo è permeato di disperazione e non ci viene difficile pensare che si tratti della disperazione dello stesso Shakespeare, almeno sul piano dell’immaginazione. Rileggendo l’opera avvertiamo una stanchezza sperimentale, una sensazione di desiderio insoddisfatto che ha portato poi il drammaturgo a dedicarsi ad altro.
Quando si ha a che fare con le grandi idee – che si tratti ad esempio di darwinismo, marxismo, la psicanalisi eccetera – e le si confronta con le opere del Bardo, si ha sempre un po’ la tendenza a considerare Shakespeare come una sorta di loro precursore. Qui non stiamo parlando certo di grandi idee, ma il concetto è lo stesso: Measure for Measure è la prova ultima di come “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
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