Disuguaglianza e immobilismo sociale, i rischi della democrazia. Intervista a Federico Fubini
Esiste un rischio per la tenuta del sistema democratico in Italia? Stando a Federico Fubini, editorialista del «Corriere della Sera», e al suo nuovo libro, La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quello che nasci (Mondadori), la risposta sembrerebbe proprio di sì.
Le ragioni di questo rischio sono essenzialmente due, secondo Fubini: una mancanza di mobilità sociale che nemmeno la scuola e l’istruzione riescono a risolvere per cui si arriva addirittura al paradosso per il quale la formazione conta solo relativamente per la riuscita di una carriera professionale, ma ad assumere un ruolo primario è la famiglia di provenienza: insomma a parità di livello di istruzione e formazione chi proviene da una famiglia benestante riuscirà meglio in ambito lavorativo. Questo significa anche che potrà guadagnare di più. E questo finisce con l’aumentare la disuguaglianza, percepita e reale.
A queste conclusioni Fubini è giunto attraverso una vera e propria inchiesta che ha coinvolto studenti dal Nord al Sud dell’Italia, un’inchiesta però funzionale anche a cogliere qualche possibile soluzione, o meglio alcuni interventi che possano mitigare gli effetti della mancanza di mobilità sociale.
Con La maestra e la camorrista raccoglie una serie di inchieste da Nord a Sud attraverso le quali dimostra come in Italia manchi la mobilità sociale. Quali sono i rischi di una tale mancanza?
Rischia di diventare un meccanismo che si autoalimenta: la bassa mobilità sociale crea le condizioni perché nella generazione successiva ce ne sia ancora meno. Il meccanismo è semplice: se intuisco che partendo da zero non ho molte possibilità di salire nella scala sociale, tenderò a non studiare o a evitare altre scelte impegnative che sarebbero necessarie per arrivare a certi risultati. O almeno mi muoverò con minore convinzione, con meno grinta. Ma è proprio così che il meccanismo si autoalimenta: non può essere un caso che l’Italia abbia, anche fra i giovani di 25-34 anni, una quota di laureati fra le più basse d’Europa in assoluto.
Questi messaggi che tendono a scoraggiare le persone dall’investimento personale nel proprio autonomo miglioramento sono ovunque. Per esempio, i dati dell’Ocse ci dicono che se sei un laureato figlio di un non-laureato (immaginiamo, tuo padre lavorava in campagna e tu ti sei laureato in gestione aziendale) in Italia in media guadagnerai il 12% meno di un altro laureato in gestione aziendale il cui padre per esempio era avvocato. Questo scarto è il più ampio che si registri fra le democrazie avanzate. In alcuni Paesi scandinavi accade il contrario: i figli di persone umili che sono riuscite a studiare di solito guadagnano più dei figli di persone provenienti da una buona famiglia. Molto probabilmente, perché le prime sono più motivate.
Una laurea oggi implica 50-60 mila euro di mancati guadagni negli anni passati all’università, anziché a lavorare. Difficile affrontare questa strada, se si sospetta che dopo saremo trattati peggio dei nostri coetanei solo perché i loro padri hanno dei retroterra migliori. Nel libro cerco di far capire quanto queste contraddizioni erodano la fiducia che dovrebbe essere l’ingrediente essenziale della convivenza di una comunità di 60 milioni di persone. È un problema politico, oltre che sociale o economico o psicologico.
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È di poco tempo fa la divulgazione del rapporto Oxfam secondo il quale il 20% degli italiani detiene il 66% della ricchezza nazionale netta, mentre il 60% deve accontentarsi solo del 14,8%. Una situazione come questa, che ovviamente si protrae da molti anni, è una causa della mancanza di mobilità sociale oppure è una sua conseguenza?
Vorrei capire esattamente come Oxfam arrivi a questi dati. Quelli ufficiali dell’Ocse per esempio sono simili ma non così estremi: il “bottom 60%” in Italia ha il 17,32%, un dato molto basso ma meno che in Francia o Germania, per non parlare degli Stati Uniti (2%!). Quanto al 10% più ricco, in Italia ha il 42%: di nuovo tanto ma meno che in Germania, Francia o Stati Uniti (78%!). Non voglio dire che la concentrazione della ricchezza in Italia non sia squilibrata (lo è) o che in questi anni non lo sia diventata ancora di più per ragioni più vaste del nostro Paese (è successo, ed è successo quasi ovunque). Voglio dire che la diseguaglianza patrimoniale non è solo una particolarità italiana e da noi è meno estrema che altrove. L’aspetto che ci differenzia da tanti altri Paesi europei è questa natura “dinastica” della società. Tantissimi a tutti i livelli hanno risparmiato molto nei decenni scorsi, anche per una sottile sfiducia verso gli altri, verso il futuro e verso l’uso delle risorse finanziarie per prendere rischi sani e costruttivi: far crescere la propria azienda, tentare una start-up, innovare.
Direi piuttosto che l’Italia è più diseguale degli altri paesi dell’Europa continentale per i redditi: la distanza tra chi guadagna bene e gli altri è molto grande. L’altro problema è quello che accennavo prima: non c’è niente di male in sé nell’avere tanti risparmi. Diverso è quando trasformano il tuo Paese in una sorta di Repubblica patrimoniale: la ricchezza dei padri condiziona lo sviluppo dei figli, deresponsabilizzandoli. E non diventa capitale di rischio, cioè risorse vitale. Passi avanti ne sono stati fatti, ma non abbastanza.
In una delle prime pagine del libro, lei scrive: «Nella testa di molti, forti dell’esperienza di tanta immobilità sociale, non c’è un’espansione dei territori e della ricchezza disponibile, ma è possibile solo avanzare a spese di un altro». C’è un legame tra questo e le manifestazioni di “rabbia” che vediamo sempre più concretizzarsi, ad esempio sui social network?
Non c’è dubbio, è come dite. La sensazione che la vita sia un gioco a somma zero, che ogni centimetro di spazio lo devo strappare a qualcun altro perché non c’è crescita del territorio disponibile, alimenta un enorme rancore. Che poi sfocia nella convivenza quotidiana e in politica. Fate un esperimento mentale: quando vedete qualcuno in una posizione di responsabilità/privilegio, quante volte siete istintivamente portati a pensare che se la sia meritata? Questa è la tipica tossina della “società dinastica”, una tossina paralizzante.
Dalle indagini sul campo di cui dà conto nel libro, emerge che chi proviene da contesti disagiati ed economicamente deboli tende a vedere la società come sede di una lotta continua per la prevaricazione e la vita come un continuo homo homini lupus. Questo è solo un effetto dell’immobilismo sociale oppure è uno degli elementi di un circolo vizioso che intrappola i giovani nella loro realtà di partenza?
Ok, fatemi ribaltare la prospettiva però: dal libro si vede anche, nei test che faccio per esempio nella scuola di Mondragone (Caserta), che con degli interventi mirati e fatti bene anche la psicologia di questi giovani demotivati e pieni di rabbia può cambiare. Può cambiare il modo in cui vedono se stessi e il loro futuro. I ragazzi con cui ho lavorato a Mondragone non sono molto diversi da quello che ha sfregiato la professoressa, e non abitano molto lontano. Ma non è vero che con dei teenager così non si può fare più nulla. Nel libro credo di aver dimostrato il contrario.
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In Francia Hugo chiedeva più istruzione per le classi meno abbienti, confidando che questa fosse la leva per migliorarsi sotto tutti i punti di vista. Oggi in Italia come stanno le cose?
Stanno esattamente come diceva Victor Hugo, che in Francia ha vinto, Ci ha messo un secolo, ma è stato ascoltato e si è visto che aveva ragione. Aggiungo un aspetto che emerge da alcuni degli esperimenti nelle scuole che ho svolto per il libro: l’intervento deve arrivare molto presto, negli anni da zero e cinque per i bambini che crescono in ambienti e/o famiglie più difficili. Una cura particolare dell’educazione a quell’età può costare per lo Stato, ma è un investimento che ritorna. Nel libro l’ho chiamato “un asilo d’infanzia che rende più di un bond”.
Perdoni la domanda forse un po’ troppo diretta e a rischio di semplificazione, ma in tutto questo la democrazia che fine fa?
Grazie di averlo chiesto, perché questo è esattamente il punto: bisogna affrontare e sciogliere questi blocchi, prima che creino nelle persone una sfiducia radicata nei meccanismi di un sistema democratico. Prima che le persone siano tentate di rivolgersi a chi promette soluzioni in apparenza semplici, nella realtà estranee ai valori di tolleranza e apertura che sono il sale della vita in comune. Ma qui mi fermo perché non voglio fare politica, per nessuno e contro nessuno. Voglio però dire che questo alla lunga rischia di diventare un problema politico, che mette in discussione la credibilità del sistema democratico. È un po’ questa la preoccupazione che mi ha spinto alla lunga fase di test ed esperimenti nelle scuole da mettere nel libro.
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Per la prima foto, copyright: Redd Angelo.
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