Distopia al potere, “Genesi 3.0” di Angelo Calvisi
Negli ultimi tempi è un proliferare di trame distopiche in libri, film e naturalmente serie tv. La distopia è così diventata una specie di moda e come tutte le mode viene cavalcata: un po’ di Cormac McCarthy (quello de La strada) mischiato con una spruzzata delle atmosfere di Philip Dick (ci sta sempre bene Dick in questi periodi cupi) e magari un’aggiunta di Margaret Atwood (parità di genere) con un pizzico di Hunger Games (non troppo perché la maionese altrimenti impazzisce).Agli interessati della materia segnalo l’uscita del saggio di Elisabetta Di Minico che fa una precisa ed esaustiva ricognizione dell’estetica apocalittica (Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia edito da Meltemi).
Come notava Andrea Caterini in un articolo apparso qualche mese fa, l’argomento apocalittico/distopico è il filone della narrativa italiana contemporanea insieme più nuovo e più vecchio (citando per quest’ultimo punto proprio l’Apocalisse). Quando ci sono così tanti prodotti il problema è quindi “come” viene reso questo tema, per non essere una vuota e stanca ripetizione di immaginari già masticati e ampiamente digeriti. Neo. edizioni manda alle stampe il nuovo romanzo di Angelo Calvisi, dal titolo già di per sé programmatico: Genesi 3.0. Calvisi, genovese, nella sua vita ha scritto parecchi romanzi e fatto diversi lavori; è stato giornalista sportivo, attore, responsabile di un negozio di dischi, cooperatore sociale.
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Genesi 3.0 sembra un’allucinazione a occhi aperti (come una delle tante piante inventate che vengono presentate nel corso del libro e che producono effetti allucinatori sui consumatori). Si apre con una specie di ambientazione post-atomica, dove la natura sta pian piano riprendendo possesso delle cose degli uomini; in una palazzina vicino al bosco abita Simon, una sorta di incapace a tutto che passa il tempo in torbidi accoppiamenti sessuali con una gallina di nome Mitropa, nel tentativo di sfuggire ai frequenti cazziatoni del Polacco. il quale invece vuole che lui si dia da fare nelle incombenze agricole («Parassita maledetto», sbraita agitando il pugno, «il pane te lo devi guadagnare»).
Simon dice di sé d’essere brutto, anzi di più, di essere «uno spavento della natura, ma non è una buona ragione per spararsi un colpo in bocca». Durante il conflitto, ancora neonato, è stato trovato e preso con sé dal Polacco, il condottiero della Luminosa Guerra. È un pezzo grosso della Repubblica, una sorta di Cincinnato 3.0, in attesa che il potere, «velenoso come una radiazione», torni ad aver bisogno di lui. Il Polacco, da buon soldato, non si fida di chi legge («Mai fidarsi di chi si vanta d’aver letto un milione di libri, mi ammoniva quando ero ragazzino, e ricordati sempre: saper leggere porta solo guai»), mentre ha una fiducia illimitata nel potere taumaturgico dell’architettura, disciplina nella quale è un maestro riconosciuto. Non a caso la Repubblica lo richiamerà quando sarà necessario costruire dei muri alti, «per difendere i Palazzi degli Industriali. E anche attorno ai quartieri, per non fare allontanare la gente dalle case.»
Il Polacco è lo strumento violento del potere, il potere duro e maschilista, imperialista e guerrafondaio che ha un piacere quasi sadomasochistico nella violenza soprattutto verso chi rappresenta la diversità. Non a caso una delle scene più disturbanti e spiazzanti di questo romanzo è l’esplosione di violenza bruta contro l’oste focomelico. Lo stesso Calvisi sembra avere il piacere sarcastico di rendere traballante e insicuro il viaggio del lettore in quest’infinito gioco di specchi dove i ruoli cambiano vertiginosamente nell’attimo di uno schioccar di dita. Dopo l’abbandono della palazzina in direzione della Capitale repubblicana inizierà così una forsennata e squilibrata Hellzapoppin, piena di scantinati, suore, paralitici, freaks, monsignori e tumori architettonici (in una città che ha le sembianze di una Genova trasfigurata dalla burocrazia e dalla demenza del potere).
La storia del romanzo è poi contrappuntata dalle continue esplosioni di bombe a cui la Repubblica risponde con muri, recinzioni e cavalli di Frisia (soprattutto per tenere lontano gli “altri”); come ogni racconto che si rispetti c’è comunque anche il “boy meets girl” (la storia tra Simon e Miriam), con un finale poi sorprendente.
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Genesi 3.0 con una lingua fuori dai canoni prefabbricati di molta narrativa italiana e che attinge anche alle forme del racconto orale tenta di descrivere le vaste e infinite storture del potere («con le sue scarpe chiodate di paura» cantava Claudio Lolli). Un compito non facile, perché molto spesso si può rischiare il déjavu, ma Calvisi lo schiva componendo una stralunata e anarchica storia che attinge a tanti modelli: dalla distopia ad Agota Kristof (una sua citazione è presente all’inizio del libro) al racconto morale alla Rousseau, fino ad arrivare ai giochi di ruolo, ai videogame, al teatro della crudeltà di Artaud, al surrealismo... Un libro che mi ha ricordato qualcosa che ho letto sul blog di Paolo Nori a proposito della finalità dello scrivere che per lui non è soltanto quello di divertire (anzi si offende se glielo fanno notare alla fine delle sue letture), ma anche soprattutto di dar fastidio, di mettere in difficoltà. Di rompere i coglioni. Ecco, Genesi 3.0 rompe abbastanza i coglioni. Un merito non da poco per un romanzo.
Per la prima foto, copyright: Aziz Acharki su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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