Disoccupati e contenti?
A sentire il premier Renzi, gli italiani sarebbero disoccupati e contenti.
Contenti perché il suo racconto del Paese è entusiastico, possibilista, ottimista fino al paradosso di smentire i dati, le analisi e i giudizi sulle oggettive difficoltà italiane.
I rapporti sull’occupazione c’inducono a sostenere che si fa un eccesso di pressione sull’offerta di lavoro – su chi lo cerca – non tenendo conto delle cause culturali che appiattiscono la grande impresa italiana su se stessa, in un diffuso clima di provincialismo produttivo.
Ce l’ha detto lo Svimez, e dopo l’Eurostat, abbiamo un numero esorbitante di Neet e un numero importante di aspiranti lavoratori che non cercano più occupazione. I secondi sono tre milioni e seicentomila: un esercito diffuso nelle nostre città, un popolo paragonabile a una grande regione italiana. Le responsabilità sono sostanzialmente in capo a chi non progetta un futuro produttivo per il Paese, ma si limita a monetizzare gli ingressi e le uscite dal mercato del lavoro: che è mercato di competenze e di persone, di saperi e di saper fare.
Siamo ricchi di conoscenze inapplicate, sottoutilizzate, lasciate a marcire dentro le mani e le teste di milioni di italiani di tutte le età. Perché, allora, non ci si premura di mettere questa ricchezza umana al servizio del lavoro? Perché evidentemente nella società globale del rischio, l’Italia di Renzi preferisce aspettare e non investire: attendere che si svegli una coscienza collettiva che non c’è, e a nulla sono valsi i richiami a uno spirito produttivo nazionale dell’ex Presidente Napolitano.
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Cialtroneria, inerzia, un sistema bloccato sulle sue stesse, sterili idee novecentesche, sulla commistione al ribasso tra economia finanziaria, impresa pubblica, politica e mafie, blocco dell’accesso al credito, chiusura e miopia del sistema bancario nazionale (affetto da nanismo intellettuale). Tutti questi fattori vedono Confindustria in prima linea nella difesa della libertà di fare, ma essa stessa non fa, si limita ai proclami, alle petizioni di principio, ai desiderata, e demanda alla politica (sic!) una responsabilità sociale che, invece, gli è propria, assegnata dalla Costituzione.
In questo scaricabarile chi ci perde è il Paese, per sovraccarico di responsabilità in assenza di forze e di mezzi. L’Italia non ce la fa più, aumenta la sfiducia delle imprese e delle famiglie, e con essa il numero dei disoccupati contenti.
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